Poche settimane fa è mancato, a 97 anni, Giuseppe Sgarbi, un insolito rovesciamento della figura del “figlio d’arte”, che potremmo perciò definire un “padre d’arte”. Genitore del critico d’arte Vittorio e dell’editrice Elisabetta, dopo mezzo secolo in cui ha consumato la sua versione pubblica nel ruolo di farmacista di un piccolo paese, è stato protagonista di quello che forse è il più avanzato esordio letterario in vita di sempre. A 93 anni se ne uscì con un apprezzatissimo romanzo, “Lungo l’argine”, vincitore del Premio Bancarella. Sgarbi scriveva come rispondeva alle interviste, avvolgendo ogni riflessione in un pacato respiro di cultura classica impreziosita da una disinteressata e acuta osservazione dei gesti altrui. “Lei mi parla ancora” fu il suo terzo libro, non il più pregevole sotto il profilo artistico: ma proprio per questo è il modo migliore per intercettare il personaggio, che solo al termine si congiunse attivamente con la letteratura, troppo tardi per modificare sino in fondo lo spirito diaristico con il quale si era posto di fronte alla vita. E una sorta di diario è questo libro del 2016 che consistette in una rievocazione celebrativa della moglie Rina, una lunga lettera con la dedizione tenera e sincera di un adolescente di altri tempi più che di un anziano alla sua compagna di viaggio. Il libro è inevitabilmente circolare, avaro di fatti socialmente significativi, come di chi non vuole essere distolto da quanto gli preme. Parla di amore, di un amore, dell’unicità di quell’amore, e della sua eternità. Sostenere che parla anche d’altro sarebbe fargli un torto, e affermare che vi sia una qualità lirica struggente sarebbe eccessivo. Ma si sente che è vita vera, senza affettazione, e ci si intenerisce, molto, in quella battaglia fra la necessità orgogliosa di presentare Rina al mondo e il pudore, quasi la gelosia, con cui pure difende i segreti loro più intimi.
Giuseppe Sgarbi
Lei mi parla ancora
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