E’ già fare un torto a questo libro buttare giù una micro-recensione, con il suo bravo e ordinato carattere grafico e la voce singola di chi scrive. Dalle prime pagine capiamo che questo è un libro straordinario (non solo nel senso che è bello: proprio trasferisce il reale dentro il magico), con un gioco decostruttivo della forma grafica che non è affatto fine a sé stesso. Con una voce eccezionalmente poetica, il primo io narrante è l’albero secolare del villaggio, Fanghiglio Frondoso, e sulla pagina a margine del suo pensiero, si intrecciano nodose le ramificazioni di quel che dicono nelle loro case gli abitanti, perché Fanghiglio Frondoso tutto ascolta e assorbe, e in qualche modo ordina. Nel paese c’è un bambino, Lanny, che conosce il linguaggio nascosto della terra e delle piante, e alcuni personaggi (il padre di Lanny che lavora nel business, la madre che scrive romanzi pieni d’orrore e un artista misantropo che stabilisce un’intensa relazione emotiva con Lanny), i cui pensieri riportati in alternanza, mostrano un livello di alienazione dalla vita inversamente proporzionale all’apparente rigore dei ragionamenti. Nella seconda parte del libro, quando scompaiono Lenny dal villaggio e dalle pagine pure lo spirito del bosco, il caos affastella i mormorii del villaggio, che non vengono più collocati ciascuno sotto il nome del personaggio che li rumina, ma circolano sparsi, commisti alle voci dei compaesani. E nella terza il libro, proprio nella parte formalmente meno postmoderna della struttura e della prosa, si abbandona a una visionarietà debordante, forse anche un po’ troppo. Lanny viene presentato come un libro ecologico, un inno alla simbiosi tra uomo e natura. In primo luogo però è un potente, innovativo e proteiforme testo letterario, dalla scrittura miracolosa e rampicante, orrifico e divertente, emozionante e tenero, demoniaco e panteista. Alla fin fine una fiaba da saga nordica, per rendere più inquieto l’addormentamento notturno.
Max Porter
Lanny
Traduzione di Marco Rossari
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