“Fallo e basta”. C’è un momento della vita in cui, per la prima volta, si impartisce, con secchezza e sottintesa gerarchia, un ordine al proprio padre, e quello, a sorpresa, ubbidisce. Nell’autobiografico “Patrimonio” di Philip Roth Accade a pagina 62. “E funzionarono quelle tre parole. Io ho cinquantacinque anni, lui ottantasette, e l’anno è il 1988. Fallo e basta gli dico…e lui lo fa. La fine di un’era, l’inizio di un’altra”. E’ dal momento in cui abbiamo detto “Fallo e basta” a nostro padre che si celebra l’inversione di ruoli. All’accompagnamento alla vita, del padre al figlio, si sostituisce l’accompagnamento alla morte, del figlio al padre. Cionondimeno, il padre non viene spossessato di ogni funzione protettiva: anzi, andando incontro al suo destino secondo il rigore cronologico del ciclo delle generazioni, aiuterà a tenere il figlio lontano dalla morte. E’ per questo che il padre di Roth, che reagisce con combattiva vitalità sia alla vecchiaia che a un tumore al cervello, declina definitivamente quando viene a sapere, solo a pericolo scampato, che Philip ha rischiato di morire per un infarto e realizza di non essere stato al suo fianco in ospedale. “Avrei dovuto esserci” ripete furioso. Sono quasi “non parole”, dice Roth “per quello che la paralisi gli aveva fatto alla bocca”. Ma sono le ultime sue parole riportate nel libro. Uno dei gioielli di quel canzoniere della senilità maschile (e del resistere del desiderio, e del suo declinare) che furono le opere conclusive del grande scrittore appena scomparso.
Patrimonio
Philip Roth
Traduzione di Vincenzo Mantovani
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