Piena è un romanzo sul vuoto. Philippe Forest è un narratore di eleganza linguistica e profondità filosofica che venti anni fa descrisse minuziosamente la vita della figlia morta a tre anni (il libro è stato appena ripubblicato, come questo da Fandango,
si intitola Tutti i bambini tranne uno). In una recente stupenda lectio magistralis a Pistoia, Forest ha proclamato la morte del genere dell’autofiction, declassandolo a “neo-naturalismo dell’intimo in virtù del quale ciascuno diventa il regista, il propagandista e il pubblicitario della propria piccola persona” e a “una specie di selfie vagamente sofisticato”. Forest considera le sue opere rubricabili nel genere che in Francia viene chiamato exofiction, “romanzi nei quali si racconta la propria storia allo specchio che offre quella di qualcun altro” (e anche quel qualcun altro, in “Piena” si sente in dovere di premettere: “Il mio caso non conta. Ma bisogna pure che lo evochi per dare credibilità a quello che state per leggere”). La sua costante è però questo aggancio con la perdita, l’assenza, la mancanza, e con l’anticipazione e il ritorno di tutto questo. “Piena” è una stilizzata storia narrativa (stilizzati gli ambienti, i personaggi e persino il narratore) nella quale si teorizza che la perdita e la defezione di qualcuno o qualcosa vivano sempre in noi e riemergano nelle occasioni che le riportano alla memoria; e che ogni sparizione ha l’attitudine per diventare simbolo e principio di tutte le sparizioni. Il protagonista, colpito da un grave lutto, si trasferisce in una periferia spettrale sospesa tra la fatiscenza dell’abbandono e l’eccitazione dell’edilizia gentrificante e destinata ad essere cancellata da un diluvio. Da leggere con lentezza.
Philippe Forest
Piena
Traduzione di Gabriella Bosco
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