Negli ultimi decenni sono usciti molti affascinanti romanzi sulla paternità ma questo, per quanto ne so, è il primo sulla paternità acquisita. Una delle ferite che gravano sulla genitorialità non fondata sul sangue è la spiacevolezza con cui la si nomina: in Italia patrigno e matrigna (che oltre tutto viene istintivamente associata a quella di Biancaneve). Nella lingua spagnola non stanno messi meglio, anzi, e il tormento interiore del protagonista della prima parte del romanzo ambientato in Cile, Gonzalo, esplode quando una cassiera del supermercato gli domanda quale rapporto abbia con il bambino che sta accompagnando (siccome Gonzalo è giovane potrebbe essere anche il fratello). Dopo avere maldestramente risposto di essere “un amico” viene divorato da un tarlo che scuote la sua identità, e chiarisce al piccolo Vicente che lui è il padrastro – e a Vicente la cosa non fa né caldo né freddo, cioè non lo turba il cattivo suono della parola, non lo illumina alcuna rivelazione, lui è naturalmente immerso in una relazione di cura e poco gliene importa, alla sua età, di classificarla socialmente. Per Gonzalo la questione è diversa, non solo perché insegna letteratura e tiene molto alle parole, ma è già afflitto da altre difficoltà nel definire la sua identità, ama la poesia, gli piacerebbe definirsi poeta ma è consapevole di esserlo in modo mediocre, o di non esserlo affatto, e per questa insicurezza arriva a recitare alla sua donna poesie di altri che spaccia per sue, e non capisce bene se pubblicare un libro che non leggerà nessuno è sufficiente a modificare il suo status. Gonzalo e Carla si sono posseduti, velocemente e con poca soddisfazione da ragazzi. Si incontrano nuovamente quando lei è separata e vive con il figlio Vicente, che prima Gonzalo patisce come terzo incomodo nel lettone, e al quale poi si attacca profondamente componendo un nucleo familiare apparentemente quieto ma frequentemente elettrizzato da sottintesi e corroso da frustrazioni. Ma se le strade si dividono si perde la qualifica di padrastro? Come minimo non si trasmettono i geni, però quel che Gonzalo tramanda a Vicente non è irrilevante, ed è la stessa passione per la poesia, e il desiderio di praticarla attivamente. La seconda parte del libro, incentrata su Vicente, comprende un’incursione antropologica nel mondo epico e prosaicamente conflittuale dei poeti cileni che nulla ha a che fare con le stucchevoli messe in scena dei narratori e dei loro ego che ci propina a dosi da cavallo la narrativa americana. E la terza è la resa dei conti affettiva tra il padrastro e il figlio che fu abbandonato, di una commozione quasi insostenibile, galleggiando sull’intensità sentimentale delle piccole cose, senza che Zambra neppure avverta la necessità di sfiorare il tragico. E del resto per i due terzi del libro si ride tanto, ci si abbandona dentro un registro comico, un passo prima del surreale, dunque un passo prima di Bolano, con il quale tuttavia Zambra contrae un notevole debito stilistico.
Alejandro Zambra
Poeta cileno
Traduzione di Maria Nicola
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