Qui bisogna per forza cominciare dalla trama. A Napoli due bambini camorristi scippano per errore la mamma di un boss che, per la caduta, finisce in coma all’ospedale. Uno dei due, il cui padre è già pronto al sacrificio di Isacco, si rifugia nell’appartamento sottostante, dove risiede un maestro di pianoforte, musicista fallito, omosessuale e infelice. Plot semplice, immediato, trendy, pronto alla traduzione filmica, che in effetti ha preso avvio con il volume appena sottratto alle rotative. Sotto certi profili, tuttavia, il film dovrà tradire il libro, o modificarlo, e non solo perché in termini di verosimiglianza fattuale e psicologica è una falla ininterrotta. Non è affatto la trama di sangue e crimine che il lettore di bocca buona si attenderebbe. E’ abbastanza evidente che Roberto Andò, regista prima che scrittore (ma un riconoscimento nel secondo ruolo lo aveva già ottenuto), vede e ci fa vedere le scene che mette sulla carta. E però il ritmo (pur con una sua interna intensità) è quello letterario, perfettamente coerente con le ampie citazioni di Kavafis, prediletto da Gabriele Santoro (il maestro) e assai ben metabolizzato da Andò- così come l’altra ipotetica stella polare, Anna Maria Ortese. E la figura paradigmatica è quella dei sonnambuli, che solo un evento improvviso smuove dalla monotonia e dalla rassegnazione, evidenziando che il loro è un sonnambulismo morale. Così- e torniamo alla ragione profonda della debole verosimiglianza dentro un quadro apparentemente realista- la vicenda si dipana come un sogno. Il rapporto tra il piccolo Ciro e Gabriele è un filo troppo paradigmatico della relazione allievo-maestro ma pure ricco di una sua tenerezza e ben esplicativo di come lo scambio pedagogico sia sempre alla pari, uno che traccia il sentiero e l’altro che infonde senso e riscatta il maestro. Fino a che l’allievo diventa la guida, come a un certo punto accadrà anche qui.
Roberto Andò
Il bambino scomparso
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