Ci sono diverse caratteristiche che (per giunta messe assieme)
fanno di Sandro Veronesi un unicum nella letteratura italiana contemporanea: la sua limitata distanza emotiva da tutti i personaggi che mette in scena; la magica alchimia dei suoi dialoghi, che dentro l’apparenza di un realismo del quotidiano celano sempre uno scarto surreale (magari un eccesso di franchezza di uno dei parlanti) che li rende irresistibili, e tra i meglio scritti, non solo in Italia; una sorta di culturale globalizzazione interiore, che lo ha reso aperto ad ascendenze pop, cosmopolite e multimediali, tutte però confluenti in un rigoroso canone letterariamente alto (in questo suo ultimo romanzo c’è persino-parole sue- la cover di un racconto di Fenoglio); una tensione etica onnipresente che non ingolfa mai la fluidità della narrazione (personalmente aggiungerei anche che Veronesi somiglia veramente ai suoi libri; non è affatto uno di quelli che basta una conversazione per pensare: “Dio! Sarebbe stato meglio se non l’avessi conosciuto! Come farò adesso a credere a quello che scrive?”, e ce ne sono. Veronesi è l’opposto, e anche questo ha il suo peso). Una simile dotazione la troviamo, al suo massimo splendore, pure nell’ispiratissimo Il colibrì. Dimenticavo: Veronesi è maestro degli inizi fulminanti. Nell’ultimo romanzo uno psicanalista poco deontologico ma tenerissimo va ad avvertire Marco Carrera, stimato oftalmologo un po’ provato dalle disgrazie (e in quel punto del libro ancora non immagina quanto) che la sua paziente, ovvero la moglie di Carrera, si accinge a mandare all’aria il matrimonio. Siamo nel 1999: e a questo punto comincia una polverizzazione della cronologia, perché i brevi capitoli- composti di materiale eterogeneo comprendente, oltre alla narrazione in terza persona, lettere, mail e qualche elenco- percorrono gli anni tra il 1973 e il 2018, senza nessuna fatica per il lettore, che viene a sperimentare la sensazione fisica del colibrì. In effetti il nome dell’uccello è il soprannome che il protagonista si porta dietro dalla fanciullezza: gli era stato affibbiato per la sua gracile statura dovuta a un ritardo nella crescita e gli era rimasto attaccato per abitudine. Ma verso la fine del romanzo la donna che egli ama per tutto il libro in modo molto più platonico di quanto vorrebbe gliene propone per via epistolare una nuova esegesi: Marco, tu sei è il colibrì perché come il colibri “metti tutta la tua energia nel restare fermo (…) Riesci a fermarti nel mondo e nel tempo, riesci a fermare il mondo e il tempo intorno a te, certe volte riesci addirittura anche a risalirlo, il tempo, e a ritrovare quello perduto, così come il colibrì è capace di volare all’indietro”. Marco Carrera- che peraltro non è convinto di rimare così fermo- ha le sue ragioni per opporsi ai mutamenti, che tracollano spesso in modo spiacevole e lo mettono a confronto nel tempo con una moglie psichicamente instabile, un’amante intimamente irraggiungibile, un fratello formalmente irraggiungibile, una figlia che da piccola si cimenta con uno strano disturbo mentale: la certezza di avere alle spalle un filo attaccato- come nella gare di scherma. La resilienza di Marco afferra un obiettivo, allevare “l’uomo del futuro” che in realtà è una bambina ed è la sua nipotina della quale si trova a dover fungere da genitore cumulativo. Ma perché dicevo che anche noi lettori siamo colibrì? Perché questi sbalzi temporali non ci costringono faticosamente ad arretrare ed avanzare insieme a loro. Mentre stiamo fermi, è Veronesi che provvede a muovere lo spazio e il tempo anche per noi, e la sua naturalezza deriva dalla perfetta introiezione che ogni momento non è fatto solo di presente. Il passato continua a frangerlo e ricostruirlo, così come l’aspettativa del futuro lo altera, lo smorza o lo innesca. Sul fondo l’interrogativo immancabile dei romanzi di Veronesi: in che modo si può attribuire un senso all’infelicità, e anzi farne un cardine positivo degli atti a venire? Il segreto, puntualmente, risulta essere la profonda assunzione delle proprie responsabilità. Veronesi scrive romanzi di formazione, di solito tardiva e comunque di un genere particolare: la formazione del senso di responsabilità. Marco Carrera in realtà è un individuo dotato, al riguardo. Ma è un perfezionista, oltre che sfortunato (e oltre che un colibrì). Miglior romanzo italiano del 2019.
Sandro Veronesi
Il colibrì
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