Della serie: romanzi sul passatoche spingono a interrogarsi sul presente.
“Tikkun o la vendetta di Mende Speisnamm per mano della sorella Fanny”, titolo amabilmente prolisso quanto impronunciabile è il nome dell’autore (Yaniv Iczkovits), è l’ennesimo gioiello della letteratura israeliana. Rispetto alla quale, tuttavia, percorre la strada non usuale del romanzo di avventura, per giunta mettendo al centro un personaggio femminile. La vicenda è ambientata sul confine dell’impero russo, nel 1894, all’epoca dei pogrom. Una ebrea viene abbandonata dal marito, un commerciante con velleità messianiche che scompare in qualche remota regione; e la sorella decide di provare a restituirle l’onore, andando a ripescarlo per strappargli almeno una firma per il divorzio. Questa sorella, Fanny, è un tipino originale, che nell’infanzia aveva scelto di intraprendere un mestiere per prassi precluso alle donne, la sgozzatrice al macello, al fine di seguire la carriera paterna e la propria indole. Una volta cresciuta, e messo alle spalle quel lavoro per un sussulto di coscienza animalista, ha tuttavia conservato il ferro del mestiere, un coltello di cui non esiste a servirsi in situazioni di estremo pericolo diventando una specie di Kill Bill. La accompagna un personaggio taciturno e singolare, un ex reduce dell’esercito russo che era stato mandato al fronte secondo una crudele regola di selezione fra gli ebrei e ora fa il traghettatore sulle sponde del fiume. Il passato di costui si rivelerà assai più memorabile del previsto, e il suo mutismo il volontario ripiegamento da una loquela che era stata salvifica ed è rimasta leggendaria. Si aggiungeranno compagni di viaggio, si moltiplicheranno avversari e inattesi protettori: ma più inattese di tutte saranno le colpe addossate a Fanny e ai suoi sodali, elevati a grandi nemici dell’impero. Quanto a Zvi Meir, il genero, il dubbio teologico che lo affligge non era tanto peregrino: come può essere stato emesso il divieto di mangiare dall’albero della conoscenza prima che Adamo ed Eva ne assaggiassero i frutti, ovverosia prima di distinguere il bene dal male? Una sua risposta ce l’ha e cerca di diffonderla. Il personaggio più interessante, l’unico con un percorso coerente (una certa approssimazione nella continuità strutturale delle personalità è il difetto del romanzo: ma giuro che non pesa) è il tenente colonnello Novak, investigatore dalla mente eccezionale, e per ciò stesso destinato all’infelicità per la perpetua stupidità dei sottoposti e dei superiori. Sarà il deus ex machina di un finale parzialmente consolante che l’autore, con una scelta letterariamente discutibile (benché coerente con l’impalcatura favolistica), decide generosamente di regalare ai lettori. Il ritmo è trascinante, la scrittura linguisticamente brulicante, ricca di guizzi, umorismo e tradizione orale; la terza persona narrativa trova sempre una soggettività cui ancorarsi per qualche pagina; è formidabile la leggerezza nel deambulare tra i tempi dell’indicativo. E l’ammonimento sul presente? Il libro tratta irridentemente di complottismo e di passività collettiva: la critica feroce sulla passività della comunità ebraica di fronte alle persecuzioni se la può permettere solo un ebreo. C’è un altro tema sullo sfondo, che è il conformismo. E però è un libro pieno di dissidenti.
Tikkun
Yaniv Iczkovits
Traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi
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