A un quarto di questo romanzo, scritto nel 1962, c’è il suo cuore, una scena di una potenza devastante, tra le più riuscite della letteratura afroamericana. Un nero si muove sul suo terreno, quello di cui è divenuto proprietario. Compie un atto fortemente materiale e immensamente simbolico, lo compie con metodica attenzione e al tempo stesso come se fosse una danza rituale. Sparge sale per uccidere la terra, come se stesse piantando semi a primavera. Ha cominciato qualcosa che non può interrompere, con la dedizione che merita una giornata di lavoro. Poi tira fuori i suoi animali e li uccide; e infine con la famiglia abbandona la casa dopo averle dato fuoco. Abbandona il paese, e con lui tutti i neri che lì vivevano, lasciando i bianchi da soli, straniti e confusi. All’inizio e alla fine del romanzo ci sono due scene estreme ed esemplarmente crudeli di razzismo, separate da generazioni, senza che lo scorrere delle epoche e la concessione di diritti civili abbia modificato nulla profondamente. Ho voluto leggere questo romanzo in parallelo col celebrato e coraggioso Tra me e il mondo di Ta-Neishi Coates, la lettera che lo scrittore scrive al figlio nel giorno del suo quindicesimo compleanno, un riassunto cronachistico di corpi offesi, soprusi, sottili umiliazioni che si è guadagnato il National Book Award nel 2015. Eppure al confronto de “L’Ultimo tamburo” è quasi tenue nel farci capire, sentire sulla pelle (qualunque sia il suo colore) che fallimento sia stato, e ancora sia, in America l’integrazione razziale.
William Melvin Kelley
Un altro tamburo
Traduzione di Martina Testa
Scrivi un commento