Il silenzio, in termini più laici, è stato nel Novecento lungamente biasimato, sia in nome della trionfante rumorosità del moderno sia in quanto colpevole diserzione dalla denuncia di genocidi, crimini odiosi, diseguaglianze sociali. Ma negli ultimi anni il vento è cambiato: fattori propulsivi della sua rivalutazione sono il successo delle pratiche di meditazione orientale, la saturazione acustica indotta dall’urbanizzazione, le forme tecnologiche di interazione sociale (che spingono in senso contrapposto rendendo dilagantemente verbale la distanza e spesso muta la prossimità), la maggiore lontananza storica e geografica intercorrente con i regimi politici che spogliano i cittadini della parola. E forse ha preso corpo la profezia di Susan Sontag, per la quale “man mano che diminuisce il prestigio del linguaggio aumenta quello del silenzio”. Già quest’elenco, tuttavia, evidenza come ciò che definiamo silenzio abbracci una serie di fenomeni totalmente eterogenei. Quel che li accomuna è che il silenzio viene sempre più presentato e percepito come una componente desiderabile dell’esistenza.
C’è tuttavia una confusione da dissipare, procedendo alle debite distinzioni categoriali che aiutano a non scivolare nelle semplificazioni. Esistono, in primo luogo, un silenzio rispetto al rumore e un silenzio rispetto alla parola.
Non dobbiamo dunque sorprenderci che esso condizioni le nostre vite con una forza forse non inferiore a quella delle parole, al punto che le strutture istituzionali e sociali, non soltanto quelle estreme come il carcere o il convento, sono rese comprensibili anche dai silenzi che le attraversano.
A maggior ragione, riprendiamo la questione del valore del silenzio. Quand’anche fosse possibile contestualizzarlo puntualmente, in base a cosa dovremo realmente considerarlo o meno con favore? La mia tesi è che il giudizio sui singoli silenzi vada messo in relazione con la libertà e l’etica.
Il tema del rapporto tra silenzio e libertà è assente o marginale nella riflessione teorica. Riguardo al rumore, esso comprende certo la libertà di sottrarsi al frastuono del mondo, per chi se lo può permettere; ma ancor più interessante mi pare l’esercizio della libertà individuale o collettiva di scegliere tra la parola e il silenzio, odiose come sono le costrizioni verso l’una o l’altro. Negli studi sulle discriminazioni, curiosamente, ci si concentra solo sull’obbligo di tacere e non sulla violenza, ancora più sottile, di essere costretti a rompere il silenzio che la dignità esigerebbe di mantenere. Il corrispettivo di quell’esortazione intellettuale che è: “Dillo con parole tue!” si sostanzia in: “Taci con i silenzi tuoi!”.
Inevitabilmente, chiamando in causa la libertà, assume un rilievo centrale il piano dell’etica. È normale chiamare un gruppo, un ente o un singolo soggetto a dare conto delle sue dichiarazioni; meno comune, tutto sommato, che ne venga invocata la responsabilità per i suoi silenzi, se non in casi macroscopici. Credo invece che dovremmo abituarci a considerare la gestione dei silenzi un architrave del nostro agire nel mondo, oltre che un buon parametro di giudizio delle istituzioni, delle organizzazioni e di chi le rappresenta. Nella sfera delle interazioni personali gli effetti drammatici di alcuni silenzi, frutto delle inibizioni, delle frustrazioni e dei giochi di dominio che li alimentano, segnano irreversibilmente le storie degli individui, con il torto ulteriore di giovarsi vigliaccamente della loro invisibilità.
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