“Storia e pratica del silenzio” estratto dal paragrafo “Il silenzio dell’analista”
All’inizio della terapia e della singola seduta il silenzio è, in effetti, un ritrarsi per dare spazio al paziente. Ma è ormai opinione comune che quel silenzio debba da subito essere intriso di consonanza ed empatia, corrispondente al “terzo orecchio” che Theodor Reik esortava a mettere a disposizione del paziente.
Freud non era poi così propenso all’empatia e nemmeno disdegnava di interrompere il flusso di libere associazioni con le sue interpretazioni (almeno fino a che non divenne afono per via del tumore alla bocca, e pure un po’ sordo; peraltro, quando ancora praticava l’ipnosi, era già stato seccamente zittito dalla storica paziente isterica Emmy Von N., che insomma non stesse sempre a domandarle da dove veniva questo o quello ma ascoltasse quello che lei aveva da dire); e però dipingeva l’atteggiamento silenzioso dell’analista come rispettosa “attenzione liberamente fluttuante”.
Searles contestò questo mito del silenzio neutrale e dell’attenzione fluttuante: come vi sono tipi diversi di silenzi del paziente ve ne sono almeno altrettanti dell’analista. E comunque, se pure esistesse un unico, olimpico silenzio dell’analista, conta il modo in cui esso viene percepito, e non c’è dubbio che il paziente lo colga secondo sfumature che sono colorate dal suo animo e dalle sue ansie. Searles, per giunta, lavorava soprattutto con pazienti borderline – anche se era persuaso che da quella categoria si potessero trarre indicazioni relativamente generalizzate – e rimaneva colpito da casi come quello del paziente che gli disse: “Nel suo silenzio lei mi appare come una persona sprezzante, beffarda e sarcastica”. Di un altro constatò che attribuiva le proprie incongrue digressioni al mancato intervento correttivo dell’analista, e che quindi considerava i suoi silenzi come equivalenti all’interruzione verbale; e di certi paranoidi chiusi in un mutismo inossidabile comprese che suonava minaccioso l’eco che ne restituiva il suo controsilenzio. E tuttavia conservò la convinzione che i silenzi restassero, se modulati nella maniera consona a ciascun soggetto, il metodo di cura più efficace e quel paziente che, sordo a tutti i tentativi di interpretazione, si congratulò con lui per quanto gli era stato invece di aiuto con i suoi silenzi divenne il parametro del suo lavoro.
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