Sin da quando la pandemia ha rivelato tutta la sua gravità il mondo si è diviso in due categorie: il riparazionismo, ovvero la schiera di sostenitori della necessità di misure eccezionali che mettano il mondo in condizione di ripristinare le sue dinamiche precedenti; e il palingenetismo, ossia il partito di coloro che tali dinamiche vedono sepolte e ne ricavano una chance di rigenerazione per l’individuo e la società.
Nonostante la loro opposizione, non è infrequente che entrambe si appoggino sull’adagio cerca di trasformare la crisi in opportunità, oramai diventato nelle interazioni sociali un analogo del “buongiorno”, al punto che digitando “Covid turn crisis into opportunity” la ricerca offre 299 milioni di risposte.
In effetti, anche chi spera di riparare il mondo e restituirlo come nuovo mette in conto la trasformazione di alcune regole d’uso, come una maggiore digitalizzazione (cui sono anzi più propensi i riparazionisti che i palingenetisti).
Per capire veramente dove punterà la rotta manca certo il dato fondamentale, la corretta contestualizzazione: non sappiamo cioè se quello che dovremo disegnare è davvero un mondo post- Covid o un mondo cum-Covid. Che il virus prosegua la sua regressione, che ci investa con una seconda ondata o permanga negli anni (lui o qualche parente) quale intermittente elemento di sparigliamento fa molta differenza nell’attribuire o meno alle ipotesi conservative qualche dose di realismo.
Ci sono in piedi molte alternative di natura economica e sociale (meglio, di compenetrazione tra i due aspetti) e, nell’attesa del verdetto sanitario, possiamo provare a isolare quattro coppie di opposizione, e scorrerle rapidamente per rammentare quale sia la posta in gioco.
Globalizzazione/Comunità.
È la più scontata, visto che la globalizzazione è stata accusata di essere la madre delle pandemie e della loro ricaduta economica. Sarebbe stato comodo per i sovranisti che il virus andasse a spasso per il mondo nascosto negli organismi degli immigrati clandestini, ma invece i motori del contagio sono state forme di mobilità internazionale borghesi, ludiche o nazionaliste, quali i viaggi d’affari, le crociere, le partite di coppe calcistiche: tale fattore ha addirittura ridotto l’appeal del populismo etnico durante il confinamento. Ad eccezione della Nuova Zelanda, che ha optato per una chiusura annuale dei confini, la principale preoccupazione è presto diventata la loro riapertura, specialmente per i paesi che contano sui flussi turistici per tenere in piedi la bilancia dei pagamenti. Rispetto al movimento umano, dunque, l’attenzione si è concentrata sui movimenti delle merci e sulle catene della produzione, constatando quanto dannose possano dimostrarsi la dipendenza da singole aree geografiche per l’importazione di alcuni beni, e il frazionamento della catena produttiva in una miriade di paesi specializzati, condannandola all’interruzione quando si arresti uno dei suoi anelli territoriali. L’altro dato incontrovertibile è, che durante una grave crisi, la mano invisibile del mercato, ammesso che esista, diventa nulla più che una mano mozzata. La salvezza l’hanno attesa tutti dagli stati che, grazie a una massiccia distribuzione di risorse, hanno riguadagnato la loro centralità. Ma il caso europeo (e quello dei paesi asiatici e africani che hanno ricevuto aiuti dalla Cina) dimostra come lo stato non possa reggere, neppure nel termine medio-breve, il peso della distribuzione di risorse- che siano finanziamenti o a fondo perduto- senza un sostegno esterno. Se insomma il Covid ha messo a nudo i limiti di una globalizzazione capillare, esso ha anche mostrato l’estrema difficoltà per gli stati di prescindere da forme di interdipendenza e collaborazione. Peraltro, nonostante la globalizzazione, lo scambio di informazioni sanitarie è risultato nell’insieme piuttosto deludente, così come l’apporto degli organismi sovranazionali. Cosa dividerà maggiormente i riparazionisti e i palingenetisti in tema di globalizzazione (a parte l’immigrazione, ove i contagi cominciassero ad arrivare anche da lì)? Il ridimensionamento della finanziarizzazione dell’economia, alla quale in termini di contagio nefasto i virus tecnicamente hanno poco da insegnare.
Ambientalismo/Crescita economica.
L’irruzione del Covid nelle nostre vite è sembrata in prima battuta la rottura dell’argine antiambientalista. Gli effetti devastanti su scala mondiale di un virus a limitato tasso di letalità hanno immerso con l’immaginazione nelle lande distopiche, assai più terribili, della catastrofe climatica. E’ stato facile dire: vedete cosa succede quando arriva un disastro incontrollato, meno grave di quello che stiamo rendendo ineluttabile? Per giunta, la più veridica teoria sull’origine del passaggio di virus dagli animali agli uomini conduce dritta alla deforestazione; e la frenata della produzione e dei consumi ha contratto del 25% l’emissione di anidride carbonica. Non è una novità: da sempre le crisi economiche riducono le emissioni; e però, da sempre, la ripresa le riporta al livello di prima, e anche oltre. Nel 2010, ad esempio, le misure di stimolo economico ne provocarono una rapida impennata del 5,1%. Attualmente la condotta degli stati è nettamente orientata a favorire la ripresa dei consumi tradizionali, e la distribuzione diretta di risorse ne prosciuga la disponibilità, e Il 70% degli investimenti mondiali nelle fonti alternative dipende dalle finanze pubbliche … Per non parlare del picco al ribasso del prezzo del petrolio che in una situazione tanto precaria è una manna per gli approvvigionamenti. È anche vero, però, che la riduzione della sua redditività rappresenta una spinta alla riconversione verso le fonti rinnovabili. Intanto gli stili di vita mandano messaggi contraddittori. La criticità sanitaria ( o quanto meno psicologica) dei trasporti pubblici rimette in gioco il possesso individuale dell’auto.
Telelavoro/Ufficio.
Lungi dall’essere una questione meramente privatistica e di gestione d’impresa, lo smart working (che in buona parte dei paesi è stato semplificato nel lavoro in remoto da casa), questa opposizione investe un paradigma culturale molto più vasto. Su ogni cosa sembriamo destinati a domandarci: ma non potremmo farlo a distanza? Per quanto riguarda le imprese la risposta sembra essere affermativa: il 40% delle aziende occidentali vi hanno fatto ricorso, e il 20% ha intenzione di utilizzarlo stabilmente. Dal punto di vista economico gli effetti di indotto sono notevoli: si pensi al mercato degli affitti degli uffici, ai ristoratori intorno alle zone circostanti, alle compagnie aeree. Dal punto di vista sindacale sono sin qui devastanti, circa 3 ore di lavoro in più al giorno senza straordinario e un peso insostenibile e continuativo sulle donne. Dal punto di vista dell’efficienza dipende dagli ambienti: certo alla pubblica amministrazione sin qui non giova, come dimostra che siano ancora sostanzialmente chiusi in Italia gli uffici comunali e le biblioteche; e in generale l’eccesso di isolamento non giova alla creatività (cui indubbiamente però ancor meno giovano gli open space), né la distanza è in grado di riprodurre tutte le interazioni ravvicinate senza perdere qualcosa. O forse sì? La leggerezza con cui, nonostante l’allentamento della necessità sanitaria, se ne propaganda l’uso nelle scuole o nelle università è abbastanza impressionante e annulla l’idea stessa che sia formativa, non meno dell’instillazione di concetti, la socializzazione ambientale. D’altronde, l’incremento della distanza anche nei rapporti affettivi consolida la tesi che il Covid non stia rivoluzionando alcunché ma solo rinforzando tendenze già in atto. Ritornando al tema del lavoro, la vecchia aspirazione lavorare meno lavorare tutti sembra ripiegarsi in un meno ambizioso lavorare a casa, che rivisita il nucleo stesso della domesticità. E che è comunque precluso al nuovo lumpenproletariat, per il quale la casa (altrui) rappresenta la meta del delivery: quel che di comune hanno il lavoratore domestico e quello precario a domicilio è di essere entrambi incatenati alle esigenze della velocità, e se possibile dell’immediatezza.
Eguaglianza/Diseguaglianza.
Il Covid, in linea di principio, ha rispettato le gerarchie sociali. Chi ha meno mezzi ha avuto meno possibilità di scansarlo e ripercussioni economiche più strettamente connesse alla sopravvivenza. E però, di alcune posizioni della classe media che si reggevano sul flusso costante di liquidità, è emersa di colpo la fragilità; è sconcertante come interi settori (quello dei trasporti aerei è stato il caso più eclatante) si siano trovati in ginocchio già dopo due mesi di inattività: una prova che l’accumulazione del capitale è di pochi. Si fa un gran parlare di solidarietà, ma la ragione per cui non è ancora esplosa una guerra sociale è che gli stati hanno sin qui distribuito (o provato a farlo, o finto di farlo) le risorse in modo generalizzato. Ma quando si tratterà di cavarsela da soli è probabile che esploda il conflitto latente tra salariati da una parte, imprese e lavoratori autonomi dall’altra. La crisi economica non ha ancora mostrato il suo volto peggiore. Gli analisti i continuano a ragionare come se si trattasse di una crisi paragonabile a quelle che prendevano piede dal collasso di un dominio strettamente economico (quali la crisi petrolifera o la bolla immobiliare), sottovalutando che qui l’azione principale è condotta da un fattore esterno non del tutto controllabile e che questo accade in una fase del capitalismo che ormai da un decennio si poteva sospettare come crisi strutturale. Il capriccio del destino fa sì che i principali beneficiari dell’emergenza siano al momento i giganti dell’hi-tech, che hanno offerto strumenti per affrontare l’emergenza ma che anche hanno interesse a stabilizzare quei metodi di contrasto e renderli più desiderabili di quel che dovrebbero essere. Giganti dell’hi-tech che sono altresì il simbolo delle diseguaglianze e del monopoli che le incrementano. Se le diseguaglianze passassero un certo limite (dal quale non sono così tanto lontane) e spingessero parte dei ceti medi verso la povertà, sarebbe del tutto irrealistico continuare a prevedere e filtrare la realtà in termini di incrementi e diminuzioni del PIL. Potremmo essere chiamati a confrontarci, dentro un clima pesantemente antagonista, con trasformazioni economiche e sociali molto radicali; e d’altronde quel che più si può contestare ai riparazionisti è che se oggi abbiamo tutti questi problemi non è che il sistema fosse poi tanto solido, e nemmeno così inclusivo. Mica ce la si può sempre cavare con turn crisis into opportunity. O magari sì, ma non come semplice aggiustamento.
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