Pubblicato sulla Stampa il 4/1/2007 e poi sul Foglio. Oggi lo riscriverei uguale.
Babbo Natale venne impiccato il 24 dicembre del 1951, davanti alla cattedrale di Digione. Alcune centinaia di famiglie della parrocchia, sostenute dal clero, lasciarono penzolare dalla cancellata un fantoccio vestito come Santa Claus, e poi lo bruciarono sulla piazza, colpevole di infiammare le pulsioni consumistiche nei giorni sacri. Ad onta di quell’incidente di percorso il barbuto beniamino dei bimbi,
negli anni successivi, si è felicemente insediato nel loro immaginario, accomodandosi nel complesso con le resistenze cattoliche. Ma ecco che, a metà dicembre, una maestra inglese viene espulsa dalla scuola elementare per avere rivelato agli alunni che Babbo Natale non esiste. La sua iniziativa, bollata come arrogante e antipedagogica, assumerebbe tuttavia una diversa pregnanza se la si leggesse come coraggiosa e nietzschiana posizione filosofica; se risultasse, insomma, che l’affermazione era in realtà: Babbo Natale è morto. Certo, la scorsa settimana, i doni sotto l’albero sono comunque arrivati. Ma la spinosa questione metafisica relativa a Babbo Natale per il futuro non può più essere elusa.
E’ chiaro che lasciarlo in vita dove non c’è infanzia sarebbe accanimento terapeutico (a meno di non volerlo ricollocare in nome della flessibilità). Ed esiste ancora l’infanzia? Il 2006 che va a concludersi è stato un annus horribilis per i bambini. Nei Paesi del Terzo Mondo il loro sfruttamento lavorativo, il turismo sessuale, l’arruolamento negli eserciti, la denutrizione contrapposta all’obesità da cheeseburger dell’Occidente sono le più macroscopiche vergogne della specie umana. Ma da noi, presso cui pure approdano impuberi profughi per attaccarsi a un termosifone, il quadro è deprimente quanto basta: violentate, violentatori, bulli, enfant prodige della camorra, vittime di faide, spettatori del padre separato che minaccia di darsi fuoco.
Nell’ultimo quadrimestre, sulla prima pagina della Stampa, sei notizie di cronaca su cento sono relative a minori, un aumento del quaranta per cento rispetto a dieci anni fa. Eppure mai tante premure sono state rovesciate sui bambini. Occupano il quarantacinque per cento degli spot commerciali. Il fatturato dei giochi è il dieci per cento del totale degli scambi. Hanno a disposizione una decina di canali satellitari. Impongono le loro scelte nella gestione del tempo libero familiare. Sono ferocemente sindacalizzati, in Germania passare dalla carota al bastone è addirittura vietato. Ma se fosse in questo affollarsi di beni per adulti estesi ai bimbi la fonte del declino di uno specifico bambinesco?
Tornano di attualità le tesi di Neil Postman, che nel 1982 pubblicò La scomparsa dell’infanzia. Postman partiva dalla scoperta di Philippe Ariès: fino al milleduecento e anche oltre, l’infanzia non l’aveva ancora inventata nessuno. Fu con i progressi della medicina e la drastica diminuzione della mortalità infantile che la vita dei bambini acquisì valore, per i genitori prima, e per la società dopo. Postman aggiunse di suo che gli elementi chiave di una condizione infantile, separata da quella adulta, sono il sentimento del pudore e la centralità sociale della scrittura, quale forma privilegiata di apprendimento dei segreti della maggiore età. Per saperne quanto i grandi era necessario imparare a scrivere, e fino a quel momento si era diversi da loro. Senonchè, avvertiva Postman, la modernità stava cambiando le carte in tavola: la televisione aveva distrutto l’infanzia, perché grazie ad essa il bambino accede al mondo adulto e ai suoi risvolti attraverso le immagini, per decifrare le quali non ha bisogno di educazione né di tirocinio. Venticinque anni dopo quel libro, l’avvento della tecnologia informatica e Internet hanno ulteriormente eroso il divario conoscitivo tra le generazioni, risultando quei portati della tecnica maneggevoli in misura inversamente proporzionale all’età. Il cellulare, ingenuamente fornito in dotazione ai piccini, ha segnato il definitivo superamento dell’epoca in cui i pargoli si limitavano a simulare l’uso degli strumenti propri degli adulti: rubando il fuoco-telefonino al Dio-uomo, il bambino-Prometeo ottiene di infinocchiarlo più facilmente sulla sua dislocazione ed elimina il filtro di controllo sulle telefonate che prima passavano per casa. Inoltre, con la sua duttilità videoriproduttiva, il cellulare aggiunge brio supplementare alla scoperta del sesso, ed elimina un’altra barriera alla decadenza del pudore infantile che già lamentava Postman. Del resto l’utilizzo del telefonino, che induce alla confessione in pubblico della propria intimità, è già intrinsecamente pornografico. Ariès citava tra le prove a sostegno dell’indifferenza medievale verso l’infanzia, il fatto che nessun’opera d’arte riproducesse bambini.
Toccò a Gesù, dentro la Sacra Famiglia, e ai putti aprire la gloriosa strada della raffigurazione della tenerezza dei fanciulli, che avrebbe offerto prove emozionanti ancora durante il Novecento. Oggi siamo ritornati al passato. Dei 137 artisti che il catalogo Art Now indica come i più significativi sotto i 40 anni, l’unico che dipinge bimbi è Yoshitomo Nara. Ma i suoi piccoli personaggi, dallo sguardo ambiguo, furioso, sgradevole, rimandano, tutt’al più, ai ragazzini sanguinari sbarcati su un isola deserta che William Golding descrisse nel Signore delle mosche.
Al di fuori delle foto da reportage, non c’è più spazio iconografico per l’ingenuità dei bambini, che vengono richiamati in scena soltanto in forme perturbanti, come quelli impiccati in piazza da Maurizio Cattelan. Il principale mini-eroe di un romanzo recente è l’Oskar di Safran Foer, che per i suoi tratti eccessivi di maturità può considerarsi più un nano che un bambino (e forse non a caso ha lo stesso nome del deforme protagonista del Tamburo di latta). Il cinema è l’unica arte che riesce ancora a posare stabilmente uno sguardo innamorato sulla tenerezza infantile, a volte facendosela imprestare dalla letteratura (Io non ho paura, Certi bambini), più spesso motu proprio (Il segreto di Esma, Central do Brasil, La guerra di Mario). Ma si tratta sempre del racconto sconsolato di come sia vano provare a rimanere attaccati alla propria infanzia. Nemmeno quel tipo di pietas trova spazio nella vita di tutti i giorni, come dimostrano coloro che vorrebbero abbassare la soglia di punibilità a dodici anni, per contrastare i reclutamenti operati dalla camorra. Che a quel punto, come è ovvio, abbasserebbe a sua volta l’età per l’inquadramento criminale. E si potrebbe ad un certo punto ritornare al 1780, quando a Norwich, in Inghilterra, una bambina di sette anni rubò una sottana e venne impiccata. Era lei, proprio, e non un fantoccio.
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