Blizzard, Hong Kong e la rivolta dei gamers. I confini porosi della vita virtuale.

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La realtà supera la fantasia è una frase vecchia, nel senso che andava bene per il mondo analogico. Nell’età digitale la fantasia e la realtà, come il fisico e il virtuale, agiscono sempre più fuse tra loro (ragion per cui possiamo definire il mondo in cui viviamo come infosfera).

Una prova clamorosa proviene dal caso #BoycottBlizzard, che sta infiammando il mondo dei gamer, soprattutto americano, ed è stranamente assente, o quasi, dalle cronache europee.

 

Blizzard, come è noto, è il principale colosso dei videogiochi tra l’altro creatore di Warcraft che, per via della convivenza di uomini e orchi, venne indicato come un modello educativo per la tolleranza. Il suo prodotto attualmente di punta, Hearthstone, conta oltre 100 milioni di giocatori. Al suo interno ogni giocatore si appropria della sua identità fittizia e attraverso quella contribuisce all’evoluzione dell’ambiente di gioco.

Circa un mese fa un giocatore professionista, il cui avatar è Blitzchung, decide di supportare, dentro Hearthstone, le manifestazioni di Hong Kong. Immediatamente Blizzard lo “banna”, squalificandolo per un anno, e persino gli revoca il premio di 10.000 dollari che aveva sin lì guadagnato. La succinta, sconcertate motivazione è stata quella di voler “salvaguardare la dignità del paese”, cioè della Cina, che – guarda caso – è giusto in procinto di decidere sull’autorizzazione a Blizzard per commercializzare un nuovo videogioco. La pavidità dei colossi digitali in terra asiatica non è episodio nuovo: già Apple ha nascosto la visualizzazione della bandiera taiwanese tra gli emoij a disposizione degli utenti di Hong kong e Macao…

 

Tra i gamer di Hearthstone è scoppiato pesantemente il malumore: alcuni si sono affrettati a cancellare il proprio account (pare, ostacolati da Blizzard), altri – gamers e no – hanno coniato l’hashtag #BoycottBlizzard. I democratici Marco Rubio e Alexandria Ocasio-Cortez hanno chiesto a Blizzard di tornare sui suoi passi. L’azienda si è limitata a ridurre a sei mesi il ban inflitto a Blitzchung e a riattribuirgli il premio di 10.000 dollari (dopo peraltro che aziende concorrenti di Blizzard si erano offerte di corrisponderlo loro, per tutelare il buon nome dell’industria di settore) ma nel frattempo ha bannato un’associazione universitaria di giocatori che durante una partita ufficiale di Heartstone aveva esposto il cartello: Free Hong Kong, Boycott Blizzard. Quest’ultima condotta avrebbe violato – dice la motivazione del ban – l’articolo 7.1B che così recita (come si dice in diritto, ma qui ci sta particolarmente bene): “E’ proibito ai partecipanti di agire in modo diretto a un altro partecipante a un terzo che sia offensivo, insultante, canzonatorio, polemico, e lo stesso vale se si è incitato qualcun altro a commettere le stesse azioni”. Resta da stabilire se l’offesa colpisca la Cina, Blizzard o se il problema sia che qualcun altro “commetta le stesse azioni”, e dovremmo dedurre che l’azione in questione sia la protesta nel gioco virtuale, ma come escludere che il pericolo sia che altri manifestanti commettano le azioni fisiche di protesta a Hong Kong (incoraggiati da quelle espresse nel videogioco)? In fondo, se quel che interessa a Blizzard sono i buoni rapporti con la Cina è quella l’emulazione da scongiurare!

 

E mentre Mitsubishi ha ritirato la sua sponsorizzazione a Hearthstone, si avvicina la riunione annuale dei partecipanti, normalmente una grande festa per mettere a contatto persone che interagiscono solo a mezzo avatar in Rete, e che rischia stavolta di essere sede di una protesta colossale, questa volta non più sullo schermo del gioco ma in un luogo fisico.

Cade dunque il mito della neutralità politica del mondo virtuale, che sarebbe poi particolarmente ripugnante in una questione in cui sono in gioco i diritti umani. I gamer, tuttavia, stanno ora manifestando non per la libertà di Hong Kong ma per la loro libertà. Da attivi compartecipi del gioco quali sono stanno sperimentando l’autoritarismo centralizzato, che in effetti ha una certa assonanza con le rivendicazioni a Hong Kong. Vuoi vedere che saranno quelli di Hong Kong a sfilare per le strade invocando che i gamer di Hearthshone possano esercitare pienamente i loro diritti virtuali? Ma no, disponiamoci all’ottimismo e prendiamo la vicenda per quello che è, una fase di liberazione dall’oscurantismo che gli analogici immaginano opprima i gamer. Ai quali possono finalmente dire: benvenuti nel nostro mondo. Sia pure a mezzo servizio.

Di |2020-09-11T15:17:27+01:008 Novembre 2019|Limite di velocità|

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