Idee non ortodosse
In un certo senso l’appena concluso 25 aprile, quest’anno, è cominciato con qualche giorno di anticipo: l’episodio di Scurati ne ha in effetti amplificato l’attualità. Le domande che ruotano intorno al caso di cronaca (che naturalmente stanno prendendo corpo nel dibattito pubblico da ben prima) sono direttamente connesse al senso della celebrazione. I partiti di governo stanno occupando e strumentalizzando le cariche pubbliche? La libertà di espressione è messa in pericolo dalla censura? Esiste un problema di “non antifascismo” che mina alle fondamenta la legittimità costituzionale di alcune forze politiche e la nostra democrazia? La stampa sta per essere messa sotto controllo? I quesiti non sono nascono peregrini, e tuttavia vengono spesso tirati fuori con approssimazione. Proviamo a ripassarli uno per uno.
La prima è ovviamente una domanda retorica: la logica dello spoil system, per la quale il cambio di governo porta con sé un cambio di funzionari, è stata praticata nel nostro paese in modo progressivamente sempre più sistematico e dichiarato (ed entro certi limiti regolamentato). Il Presidente del Consiglio, in effetti, non la nasconde ma lamenta come sia la prima volta che la regola viene messa in discussione, e sul punto non ha torto. Se differenze ci sono, non riguardano la prassi ma il personale in questione che appare particolarmente scadente: lo stesso caso Scurati, su cui ritorneremo tra poco, non è stato certo partorito da una mente brillante. Oltre tutto, il settore dell’informazione ha una delicatezza tutta sua per l’elevato rischio (non tipico di tutte le branche dell’amministrazione) di sconfinare nell’esercizio politico del potere. La revoca dell’invito in trasmissione è un caso limite, e per questo non il più interessante: conta quotidianamente l’indirizzo delle trasmissioni informative, il grado di pluralismo che in queste viene garantito, la presenza di messaggi politicamente occulti in trasmissioni apparentemente innocue (dei quali fu maestra la tv berlusconiana), la relativa assenza di filtro alla libertà espressiva delle persone che vi compaiono, una certa affezione al principio di competenza. Sarebbe una bugia dire che questi criteri sono stati rispettati appieno prima del governo Meloni, ma il livello in cui vengono lesi sembra peggiore quando al governo è la destra piuttosto che la sinistra. Del resto, da sempre (sin dai primi tempi del governo Berlusconi) l’avvento delle nuove leve o dei riciclati è stato segnato da proclami rivendicativi: prima c’erano quegli altri che non mi davano spazio perché io dico la verità, adesso ci divertiamo finalmente è il succo di tante sparate da Fabrizio Del Noce a Marcello Foa, per tacere di quelli che si sono visti affidare la conduzione di un programma. La sinistra ha sempre opposto una posizione valoriale, che se da una parte non ha impedito menzogne e ipocrisie, dall’altra ha funto da argine nella disinibizione. Inoltre, la storia recente della destra è sempre quella di un padrone solo, con la proiezione di una concezione gerarchica a favorire uno zelante servilismo tipico delle organizzazioni verticistiche e prive di un serio dibattito interno (che invece nella sinistra tracima nel rissaiolo sgretolamento interno). Senza neppure tanti infingimenti, la destra nutre per tradizione una concezione appropriativa delle istituzioni: non a caso (e qui parliamo di una nomina politica e non amministrativa), il primo governo Berlusconi ruppe il patto non scritto per il quale una delle due camere andasse assegnata a un rappresentante delle opposizioni. L’Italia vide sedere sul terzo scranno istituzionale, la Presidenza della Camera, Irene Pivetti al posto di Nilde Iotti: certi confronti andrebbero rammentati quando qualcuno viene tacciato di snobismo per sostenere una diversa qualità del personale politico fra i due schieramenti (benché parecchio annacquata nei tempi attuali). Infine, l’anti-intellettualismo, oltre a essere attivamente praticato, è stato in questi anni professato con orgoglio da molti rappresentanti della destra (spesso in prima fila nelle perorazioni complottiste fondate sulla negazione della scienza). Non è questo evidentemente un brodo di coltura adatto a rendere equilibrata l’informazione.
Veniamo alla censura: quella nei confronti di Scurati è una delle più ridicole di tutti i tempi, per quanto era prevedibile che si risolvesse in un sensazionale lancio promozionale del suo testo, rendendolo noto a milioni di persone che non gli avrebbero prestato alcuna attenzione. Per essere chiari, non era un discorso neutrale sul 25 aprile: Scurati, che ben conosce le arti della retorica, si è servito del 25 aprile come trampolino per un attacco direttamente politico al capo del governo. Questo nulla cambia nell’inopportunità della “censura”: Meloni è stata brillante e sua volta abilmente retorica nel postarla sul suo profilo Facebook (non proprio però il luogo più propenso al suo apprezzamento) ma infelice per due volte nella risposta, sia per l’argomento anti-intellettualista del compenso (che va pesato non per il tempo che si impiega a leggere il testo ma per quello che si impiega a concepirlo e scriverlo, e per lo studio che entrambe le attività hanno implicato) sia per il freudiano lapsus sul fatto che le sue critiche di Scurati al governo sarebbero pagate dai contribuenti (come se i contribuenti pagassero invece per ascoltare interventi favorevoli al governo). Possiamo tuttavia seriamente parlare di “censura” per un intervento che ha barattato la sua scomparsa dalla rete pubblica nazionale con una sorta di mondovisione in migliaia di siti culturali? La censura è un evento cha ha conseguenza gravi e umilianti: è l’impossibilità di esprimersi pubblicamente, la sparizione di testi, il bavaglio ai giornalisti nei regimi totalitari; il controllo sulla posta inviata dai reclusi; è il silenzio imposto ai dipendenti o ai redattori. Rispetto agli effetti reali, possiamo seriamente pensare che questa vicenda meriti di occupare a un certo punto lo spazio dei primi quattordici (quattordici!) articoli on line di Repubblica (i primi dieci ancora due giorni dopo)? Basta il fatto che si sia svolto nel nostro paese a giustificare che il Guardian, Le Monde o El Pais, nello stesso giorno, non abbiano articoli che occupino più di due spazi, e nello scorrere quelle stesse posizioni constatiamo che informano su Ucraina, Palestina, Unione Europea e intelligenza artificiale, o è un confronto imbarazzante? In termini di lesione al dibattito pubblico e alla dignità personale non è più assurdo che la trasmissione informativa con il più alto share della Rai, nella puntata dedicata all’aborto, inviti a discuterne sei uomini e neppure una donna? Certo, guardando all’esempio dell’Ungheria, è da stroncare sul nascere tutto quel che odora di censura o violazione della libertà di espressione: ma nemmeno va bene che questi concetti vengano tirati in ballo ad ogni costo. Personalmente ho trovato sconcertante l’unanimismo nel qualificare censura e negazione della libertà di manifestazione del pensiero la querela che Meloni ha avviato nei confronti di Luciano Canfora. Io non sono sicuro che sia lecito definire un politico “neonazista nell’animo” (per comprendere il contesto, la prova di questa tara era l’appoggio ai “neonazisti ucraini”, secondo la visione cara a Putin”) e vorrei chiedere a chi è certo del contrario se avrebbe considerato con la stessa apertura una frase che definisse lo stalinista (auto-dichiarato) Canfora “neo-assassino nell’animo dei contadini russi”. Può darsi che abbia torto io (in compagnia di Boeri e Perotti, tra i pochi a sinistra che non hanno abbracciato la posizione libertaria) ma se esiste la libertà di pensiero, Meloni sarà pure libera di pensare che la frase è offensiva e rivolgersi al tribunale. Se ha torto, sarà il tribunale a tutelare Canfora. Non trovo fondata l’obiezione che un capo del governo non dovrebbe essere opposto a un cittadino privato in giudizio: dubitando a priori dell’equità del giudizio si fa torto alla magistratura. Non avrebbe senso preoccuparsi (giustamente) di difenderla da sortite orbanizzanti del governo per asservirla, e poi trattarla come se fosse già un feudo del presidente del consiglio.
Più in generale ritengo che la comprensibile preoccupazione di una deriva autoritaria stia operando esageratamente in prevenzione. Parlavo prima di Repubblica. Questo giornale, del quale tengo ancora conservato il primo numero, ha rappresentato per me e tanti della mia generazione una palestra intellettuale essenziale per la formazione del senso civico e dell’etica politica. Ho ben presente che tempo ed eventi ne sono passati sotto i ponti: ma ancora vivo con sofferenza, come un tradimento personale, quei troppi clickbait sparati sul web, già spiacevoli se lo scopo è commerciale, ma veramente traditori della propria storia quando cercano il torbido nel personale di Meloni o ne drammatizzano e distorcono le affermazioni. Eppure ce ne sarebbe di onesto materiale politico per scrivere senza sensazionalismi ogni giorno anche più di quattordici articoli duri sul lacunosissimo operato del governo e titolarli con asciuttezza, senza perdere di mordente! Il mio timore è che a furia di gridare prima del tempo alla censura e alla dittatura si finisca per ottenere l’opposto, sollevare cagnare che renderanno meno distinguibile il momento in cui tali rischi prenderanno realmente consistenza. Del resto che un problema di credibilità sussista e sia di danno saranno ben consapevoli anche i giornalisti di Repubblica, visto che hanno di recente approvato una mozione di sfiducia verso il direttore, che pur di non pubblicare un articolo finanziario che non metteva in buona luce la proprietà ha addirittura bloccato l’uscita del supplemento che lo conteneva (quella sì una censura plateale!).
Veniamo al terzo punto: ha senso continuare a incalzare i leader di FDI, e su tutti Meloni, chiedendo se sono antifascisti? Certo, il modo in cui viene sovente giustificato il rifiuto di pronunciare l’abiura, una posizione di principio rispetto a una ingiunzione costrittiva è ridicolo: sono certo che se qualcuno, con pressione ancora più stringente, li incalzasse esigendo che dichiarino di essere anticomunisti o anti-qualcos’altro (anche anti-juventini) non proverebbero alcuna ritrosia. Forse dovrebbero più schiettamente rispondere: no, non sono antifascista. Non sarebbe del resto una barzelletta, perfino una perdita di dignità, se Giorgia Meloni o quell’altro che si tiene il busto del duce in casa dichiarassero di essere antifascisti? E la risposta negativa costituisce davvero un problema? C’è una differenza tra essere fascisti e antifascisti. Credo che la maggior parte di cose che non siamo non significano che siamo anti-quelle cose. C’è una certa ipocrisia nella discussione sull’obbligo costituzionale dell’antifascismo in un paese in cui, nell’immediato dopoguerra, non c’è stata quasi epurazione dei funzionari fascisti, le sentenze di condanna verso i fascisti sono state in buona parte annullate) e un partito chiaramente neofascista ha partecipato alle elezioni (per poi offrire nel, nel 1960, l’appoggio decisivo per la nascita del governo), per tacere ovviamente dell’occulta copertura in tema di stragi od operazione Gladio. Temo che l’insistenza sull’antifascismo stia impedendo di formulare domande più dirette, meno equivoche e praticamente più rilevanti: ti consideri fascista? Ammetti che la democrazia è una cosa altra dal fascismo? Sei disposto a promettere che non ti comporterai come un fascista? Indipendentemente dalle tue idee sulla storia e dalla tua formazione, ora che hai un ruolo attivo in una democrazia, saresti pronto ad opporti a coloro che adottano metodi fascisti? Quanto al non essere antifascisti nel proprio intimo, il mio auspicio sarebbe che ciò rappresentasse un marchio negativo verso la gran parte dell’elettorato. Ai comuni cittadini, piuttosto, domanderei se si sentono antifascisti. E purtroppo temo che i risultati di un sondaggio serio non sarebbero così confortanti (ricordo che secondo un’indagine condotta dall’Unione Europea il 59% dei giovani sotto i 30 anni ha dichiarato di non provare interesse per la circostanza di vivere in una democrazia). Di questo mi preoccuperei, non che Meloni non annuncia di essere antifascista.
Infine, il controllo sull’informazione. Che la Rai sia lottizzata da chi sta al comando, lo abbiamo detto, non è una novità. Si riteneva almeno che la lottizzazione dovesse essere distribuita, ed è per questo che Raitre era considerata quasi in appalto alla sinistra. Non è che fosse una gran soluzione neppure quella. L’ideale sarebbe che la politica tutta fosse costretta a mollare la presa sulla tv pubblica, ma chi poi nei fatti ne assumerebbe il controllo rimarrebbe da vedere. Circoscrivere lo sguardo alla tv pubblica è comunque miope: che Angelucci voglia mettere le mani su Agi mi fa molto più impressione del fatto che Scurati o Fazio parlino da un’altra parte invece che alla Rai. Il bavaglio sui media si può realizzare anche in modo soft, attraverso il controllo indiretto. Il punto più obsoleto della separazione dei poteri è che non metta in conto la necessaria separazione tra il potere politico (e il potere finanziario) e il possesso dei media. E in più, c’è il problema del far-web selvaggio, che per molti è il riferimento informativo, ben più che le reti pubbliche.
Circa quindici anni, nel libro Contro il target, avevo avanzato una proposta, che poteva apparire un provocatorio divertissement e che invece considero estremamente attuale. Per scompaginare le organizzazioni monopolistiche dei discorsi nei luoghi di accoglienza informativa, dove (come da logica del target) ci si rivolge ai lettori che condividono tutti le stesse idee, qualsiasi quotidiano che abbia una diffusione nazionale dovrebbe ospitare uno spazio gestito e prodotto da un giornale concorrente, scelto preferibilmente tra quelli collocati all’opposto dell’area di opinione (in realtà fino a che tutti saranno obnubilati dalla lettura targettizzata dei propri media, non esisterà una differenza di opinione bensì una differenza di atteggiamento). Il carattere continuativo dell’intervento estraneo assicurerebbe l’efficacia e la permanenza di una dialettica: sul web sarebbe a tutti gli effetti un link di collegamento a target diversi da quello di riferimento. Così, le trasmissioni di informazione dovrebbero comporre il palco ospiti secondo la medesima regola. Non è la par condicio: non è l’organizzatore che deve comportarsi responsabilmente allestendo il panel, è che proprio c’è un sub-decisore non assimilabile al decisore principale che gestisce un pezzo di minoranza dell’informazione. Egualmente non potrebbe avere accesso alla rete un sito che non contenga link a una pagina avversa, non un sito cospirazionista sui vaccini che non contenga la presenza di un sito scientifico.
Si potrebbe obiettare che ciascuno è padrone a casa sua. L’informazione, però, è la casa di tutti.
Fra i caratteri distintivi dell’umanità vi è la tendenza a evitare la ripetizione, privilegiando l’innovazione creativa e ciò che è differente. A uno sguardo più attento, però, fenomeni e comportamenti ricorsivi risultano prepotentemente insediati nei fondamenti delle nostre vite, e non solo perché rimaniamo incatenati ai vincoli della natura. Come le stagioni e le strutture organiche nell’evoluzione, si ripetono anche i cicli storici e quelli economici, i miti e i riti, le rime in poesia, i meme su Internet e le calunnie in politica. Su concetti e comportamenti reiterati si basano l’apprendimento e la persuasione, ma anche la coazione a ripetere e altre manifestazioni disfunzionali. Con brillante sagacia, Remo Bassetti affronta un concetto finora trascurato, scandagliandolo nei vari campi del sapere, fra antropologia, letteratura e cinema, per dipingere un affresco curioso di grande ispirazione. Da Kierkegaard almachine learning, dai barattoli di Warhol ai serial killer, dai déjà vu fino alla routine, questo libro offre un’analisi profonda della variegata fenomenologia della ripetizione nel mondo moderno, sia nelle forme minacciose e patologiche sia in quelle che invece assicurano conforto, godimento e, persino, libertà.
Quanto siamo ripetitivi
Dalla democrazia di Atene a quella del web, un atto di accusa verso un regime politico che non riesce più a risollevarsi e mantenere le sue promesse. Una revisione radicale dei concetti di libertà, eguaglianza e giustizia, contro ogni ipocrisia, per salvare l’ideale della democrazia mediante una serie di soluzioni rivoluzionarie senza passare per la rivoluzione. Un tentativo di riconciliare i cittadini e gli stati (entrambi oggi assai lacunosi) nel segno di una nuova democrazia partecipativa responsabile.
Intervista audio
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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