Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo? Con questo titolo, nel 1906, il grande sociologo tedesco Werner Sombart pubblicò un libro nel quale si interrogava sull’assenza, in quel brulicante laboratorio lavorativo che era l’America, del fenomeno politico che stava scuotendo l’Europa dalle fondamenta. Le ragioni da lui individuate erano molteplici, ma nella loro essenza andavano a confluire nella maggiore integrazione dei proletari in un paese nel quale in treno si viaggiava in un’unica classe e ciascuno poteva coltivare il sogno di diventare imprenditore di se stesso. Era impensabile, secondo Sombart, che si sviluppasse una coscienza di classe.
Nel 1988, in un articolo pubblicato dalla rivista Micromega, un altro intellettuale tedesco, Andrei Markovits, oggi docente di politica comparata, osservava che, quanto a mancanze macroscopiche, in America non è stato solo il socialismo a latitare: che dobbiamo dire del calcio? Quello spettacolo che muoveva le masse in tutto il mondo e lasciava tutto sommato freddi gli americani e cadere nell’insignificanza i tentativi di trapianto, come l’ingaggio nel campionato di Pelè a fine carriera e di qualche altra stella? (i tifosi italiani ricorderanno il centravanti laziale Chinaglia). Non che gli americani, come è noto, siano allergici agli sport, al contrario. Però amano i loro. Markovits si focalizzò sul baseball, e provò a dimostrare che il calcio è un gioco collettivo mentre il baseball è uno sport individualista, e ripercorrendo i passi di Sombart ne dedusse che calcio e socialismo non hanno attecchito in America per lo stesso motivo: diffusione dell’individualismo e pure un certo sprezzo nazional-distintivo verso quel che ha marca nettamente europea. Tale filone di pensiero è stato ripercorso da altri autori: Franklin Foer, che si è concentrato specialmente sulla divergenza del football americano dal più diffuso cugino pedatorio, raccontò per esperienza personale che i pochi ragazzi stoici che volevano giocare a calcio, oltre a doversi cercare un campetto in sobborghi sperduti, erano costretti a indossare dei caschi per evitare contratture al collo (insomma, le reti di testa sul calcio d’angolo erano improbabili).
Alla lunga nel mondo globalizzato tutto cambia, sotto la pressione dell’uniformazione. Del resto lo stesso Sombart, pur ritenendo che gli ostacoli al socialismo fossero strutturali, chiudeva il volume affermando che le cose stavano cambiando e quindi le barriere sarebbero state abbattute. Gli Stati Uniti hanno avuto in Bernie Sanders un credibile candidato alla Casa Bianca che ha osato definirsi socialista. La loro nazionale di calcio ha da pochi giorni pareggiato con l’Inghilterra, e in patria si assottigliano le affiliazioni al baseball e i lettori di Charlie Brown mentre si moltiplicano i consensi per il pallone, che è lo sport preferito di circa un americano su dieci. Se parliamo di sport femminile poi, le calciatrici statunitensi sono delle mattatrici.
Per cercare delle anomalie, forse, conviene ora rivolgersi alla Cina, anche considerando che tutte le previsioni la indicano come la potenza mondiale dominante in un arco di tempo che appare sempre più vicino.
Per il paese di Xi è un momentaccio: le manifestazioni dei giovani contro la politica zero Covid sono sempre più di massa. A innervosire ulteriormente il popolo cinese sono stati i mondiali di calcio. Ma guarda un po’, si sono detti di fronte agli schermi accessi: questi da tutto il mondo se ne stanno a fare casino lì sugli spalti e pure senza mascherina, uno azzeccato all’altro, e noi ci prendono a randellate se non ce ne stiamo chiusi a casa. In quegli stessi mondiali le nazionali asiatiche hanno fatto faville, realizzato imprese sportivamente epiche: il Giappone ha messo sotto sia la Germania che la Spagna, la Corea del Sud ha battuto il Portogallo. E i cinesi manco si sono qualificati. Figuracce su tutti i fronti.
Per quanto concerne il calcio i cinesi puntano sulla loro proverbiale e operosa pazienza: hanno stanziato massicci investimenti in questo benedetto sport (850 miliardi di dollari in dieci anni contro i 145 che vale il mercato mondiale di settore) e deciso quando vinceranno i campionati del mondo. Accadrà nel 2050.
Può essere, per carità. Ma vincere i mondiali non è come aprire i cantieri, che in quattro e quattr’otto i cinesi tirano su un ospedale, un quartiere o una città. La resistenza degli avversari sui campi di calcio può essere più dura da domare dei fattori avversi alla costruzione. E comunque, perché tanto ritardo, oltre che sulle nazioni storiche, anche sulle altre squadre del continente?
Pure per la Cina, come per gli Stati Uniti, si affacciano ipotesi sulla scarsa propensione per il calcio, anzi qui si tratterebbe proprio di essere negati (le analisi più attente le ha svolte Nicholas Gineprini). I cinesi hanno in generale una tecnica pedagogica ossessivamente fondata sulla ripetizione individuale: a ciò li costringe, sin da principio, il linguaggio per ideogrammi che origina migliaia di caratteri e profonde variazioni dettate dai toni (e forse una spintarella la dà anche il confucianesimo). La memorizzazione e il perfezionamento del gesto vanno bene se devi lanciare il giavellotto, ma nel calcio ti serve misurarti col contesto: puoi essere un asso con la palla tra i piedi, ma te ne fai nulla se non hai l’abilità di capire a volo dove va a smarcarsi il compagno. Alla luce di questa premessa nemmeno appare strano che i cinesi ottengano risultati mediocri nei test volti a misurare l’intelligenza emotiva, che negli sport di squadra aggiunge quel plus idoneo a ottimizzare l’interazione con i compagni.
In effetti, il prolungamento radicale dei lockdown, a parte quel che se ne può dire in termini metodologici e sanitari, non è un capolavoro di intelligenza emotiva (che alla lunga serve anche alle dittature). Certo, una delle incognite che turba di più la nomenklatura cinese è la scarsa efficacia del loro vaccino Sinovac. Sarà stato pure un prezioso chiavistello diplomatico, ma i paesi che l’hanno ricevuto e ora constatano (specie in Sudamerica) che protegge la metà di quelli occidentali adesso non sono tanto contenti. Ma perché mai la Cina non è stata capace di creare un vaccino adeguato? Si potrebbe malignare che hanno alle spalle troppi anni di produzione (ogni produzione) a basso costo ma scarsa qualità. E però una simile lentezza di adattamento, in una situazione estrema come questa, stupisce. Oltre al fatto che potrebbero comprare quello prodotto in Europa (ma l’orgoglio imperiale lo impedisce). Viene allora da riflettere sulla tesi che Michael Nielsen ha esposto in Le nuove vie delle scoperte scientifiche. Secondo lo specialista della computazione quantistica, la conoscenza scientifica si fonda non più sulla genialità del singolo ma sulla condivisione di scoperte, modelli e paradigmi, al punto che fisici, genetisti e matematici depositano in Rete sequenze di Dna in corso di individuazione o nuovi sviluppi di ricerca in progress. Per quanto da noi sia rimasto minoritario rispetto al monopolismo del colosso, l’idea digitale di open source è ancora una bandiera ideologica di rilievo: in Cina, ovviamente, costituisce una bestemmia.
Tutto potrebbe risolversi addebitando al governo cinese la scarsa propensione a collaborare mettendo in comune i dati o l’altrettanto politico difetto della centralizzazione. A quel punto verrebbe da domandarsi: ma nulla ha lasciato l’eredità comunista in termini di senso del collettivo? Il fatto è che non bisogna confondere quest’ultimo con la collettivizzazione forzata e autoritaria, che dal punto di vista emotivo rinforza piuttosto l’antagonismo individualista (come rappresentato mirabilmente nei romanzi di Mo Yan e Yu Hua).
Ecco che, sorprendentemente, ci troviamo al punto di partenza, come se stessimo parlando degli americani: troppo individualismo e troppa fiera opposizione all’Europa danneggiano le ambizioni calcistiche e la realizzazione di un vaccino.
Accade così che, mentre scorrono i mondiali di calcio sui televisori (benché, parrebbe, con qualche ritocco di regime per indorare la pillola, tipo nascondere ogni tanto gli spalti), i cinesi sono chiamati a una battaglia, teoricamente collettiva, che è diventata a questo punto ancora più assurda di quella incredibile che lanciò Mao nel 1958: l’allontanamento dei passeri per salvare i raccolti (con il risultato di farli distruggere l’anno dopo dalle cavallette, che erano state liberate dai loro predatori). Solo che, essendo il metodo di combattimento la produzione di rumori per non far posare i passeri – dal battito di mani alla percussione delle stoviglie – i poveri cinesi, almeno, passavano il tempo all’aperto.
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