Una differenza importante tra l’Occidente e tutti i paesi che sono passati per la colonizzazione europea (o per l’annessione sovietica) parrebbe essere, ad oggi, che per noi il colpo di stato è relegato nei manuali di storia mentre per i secondi rimane una costante possibilità.
L’attualità del colpo di stato, nel 2021, è stata rinverdita in Birmania e in Mali. Ma come possiamo definire questo concetto? Le classificazioni non mancano, e sono persino troppe – scorporandolo nelle varie forme del putsch, del pronunciamento, della congiura di palazzo. Basta forse dire che il colpo di stato è un mutamento di regime che porta a un cambiamento del governo o a un giro di vite contro l’opposizione realizzato fuori dai limiti di legge e attuato in forma più o meno violenta. Non esiste infatti colpo di stato che non comprenda al minimo l’incarcerazione di avversari o di membri del vecchio governo, ed è quasi inevitabile che il mutamento sia segnato dalla repressione di contestazioni. Il colpo di stato, dunque, può provenire anche dal governo vigente, non solo perché esso può dividersi in fazioni ma soprattutto al fine di anticipare o impedire una vittoria dell’opposizione: così è stato il colpo di stato in Bielorussia, e anche quello di Erdogan nel 2016, che ha preso spunto da un ridicolo tentativo di golpe per attuarne uno suo, con tutti i crismi. Il colpo di stato governativo è stato anzi il primo ad essere teorizzato, precisamente dall’erudito e filosofo Gabriel Naudé nel suo trattato del 1639 in cui attribuisce al sovrano il potere-dovere di impiegare tutti i mezzi necessari, compresi i più violenti, per difendere il bene pubblico (purché non ci prenda troppo gusto e diventi un’abitudine). E in effetti tutti i colpi di stato di rinforzo al governo (non solo quelli più recenti, anche quello di Silla, per dirne uno) si sono trincerati dietro la giustificazione di prevenire una sovversione dell’ordine costituito. Quelli che si sono ispirati al modello del brumaio bonapartista hanno cercato peraltro di sovvertirlo, quell’ordine, cercando di arrivare allo strappo nelle maggiori condizioni possibili di legalità.
La vera linea di demarcazione storica rimarrebbe quella tra il colpo di stato e la rivoluzione: in entrambi i casi si tratta di azioni illegali, che verranno legittimate in un momento successivo, ma la rivoluzione sarebbe portata avanti dal popolo ed esprimerebbe la volontà della maggioranza, cui l’ordinamento impedirebbe di manifestarsi utilmente nelle forme proprie della democrazia.
Un duplice strappo a questa linea di pensiero provenne da Curzio Malaparte, nel suo Tecnica del colpo di stato, pubblicato nel 1931. Non solo collocò sulla medesima linea insurrezionale il colpo di stato classico e la rivoluzione: egli espresse il punto di vista che il colpo di stato fosse una questione tecnica e non politica, ed elevò a paradigma di tale prospettiva la strategia di Trotsky durante la rivoluzione d’Ottobre, volta a ridurre (tecnicamente appunto) l’apporto delle masse e a focalizzarsi sull’uso di truppe d’assalto specializzate, e non distratte dal disordine, e sull’occupazione dei luoghi nevralgici delle interazioni pubbliche, come le centrali elettriche e telefoniche o le stazioni. Edward Luttwak, nel 1968, avrebbe spinto oltre la provocazione sul tecnicismo proponendo un manuale pratico (Strategie del colpo di stato), che non si impegolava nelle questioni morali attinenti e forniva piuttosto una guida pratica per scegliere con successo gli stati adatti al golpe, come oggi si suggeriscono quelli dove trascorrere le vacanze. In realtà, come vedremo tra poco, il libro era molto serio e, per quanto cinico, ricco di considerazioni assai fini sulle ragioni dei colpi di stato. Ma l’ultima cosa che interessava all’ex consulente del Pentagono (in seguito anche del Kazakhistan o del Dalai Lama) era stare a cavillare tra colpo di stato e rivoluzione, convinto che la seconda sia guidata dal primo.
Molti miti rivoluzionari sono stati ridimensionati dalla storiografia, rivelandosi a posteriori strumentalizzazioni elitiste: quando il popolo ha preso il potere, di rado lo ha trattenuto più di qualche ora. Tra i casi più recenti, memorabile rimase quello della Romania, che fu utile a liberarla dal feroce Ceausescu ma la congelò nella sostanziale continuità di potere.
Ma il filo tra le rivoluzioni e il colpo di stato è piuttosto di conseguenzialità preventiva, nel senso che il timore di una rivoluzione (vero, o fatto balenare) è stato addotto a pretesto per il colpo di stato. Qualche volta è accaduto il contrario: un reale movimento di piazza, di stampo rivoluzionario rispetto alle tradizioni del paese, ha impedito il colpo di stato. Così fu nel mancato golpe del 1991, quando la folla si strinse intorno a Eltsin (però non sarebbe servito a nulla se l’esercito non si fosse schierato col leader moscovita, tant’è vero che la foto che immortala l’intero evento è quella della piazza che aiuta fisicamente Eltsin a salire sopra un carro armato).
Tutta la trattatistica del colpo di stato finisce per ricondurlo all’esercito: questo spiegherebbe perché rimane così incombente nell’America latina e in Africa, zone del mondo in cui i militari continuano a rivestire un ruolo sociale dominante. Sovente si considera la fragilità terzomondista come un retaggio del colonialismo. Luttwak però pose un quesito tutt’altro che peregrino: come mai in Africa le costituzioni e le istituzioni civili di tipo europeo lasciate dietro dai colonialisti si sono disgregate così facilmente mentre sono continuate a fiorire forze armate con uniformi, gradi e regolamenti europei? La sua risposta fu che gli eserciti hanno un codice culturale universale, e che in Africa erano un efficiente riammodernamento della tribù e della comune impronta paternalistica. Un po’ diversa, secondo Luttwak (ma nella sostanza nemmeno troppo) era la questione in America Latina, dove furono gli stati ad essere creati dalle forze armate e non viceversa, ciò che conferisce sempre un’apparenza di legittimità alla pretesa dei militari di essere i veri garanti della libertà e dell’indipendenza. Luttwak aggiungeva che in alcune regioni era stato semmai il deficit di assimilazione coloniale a sfavorire l’innesto di regimi democratici. Il governo civile in Asia ha tratto beneficio dal costituzionalismo di stile britannico, e non a caso in Birmania (l’esempio è di Luttwak e risale a oltre cinquant’anni fa), dove l’impatto culturale del dominio britannico non fu particolarmente profondo e domina invece il separatismo endemico delle tribù collinari, rimane al potere un regime militare.
Negli ultimi decenni i progressi democratici delle ex colonie e dell’America latina sono stati notevoli, ma la vigilanza militare come condizione di normalità non è certo scomparsa. Più frequenti sono diventati i casi in cui invece di tenere il potere per sé lo ha consegnato a una delle parti (ma di solito si sono rivelati ingenui gli entusiasmi occidentali ogni volta che hanno immaginato che il passaggio di consegne preludesse a una svolta democratica). E i leader populisti della democrazia (ad esempio oggi Brasile e Venezuela) tengono sempre i militari come scorta e il telecomando del colpo di stato in tasca. Per riassumere la questione con le cifre, in Africa si possono stimare circa cento colpi di stato riusciti di poco dal 1950.
Ma probabilmente è un errore pensare al golpe necessariamente come un evento netto e di cesura: esso si può consumare progressivamente, con una serie di passaggi che corrodono l’ordinamento costituzionale e l’organizzazione dello stato. Come giustamente ha osservato Aldo Giannuli, se la vediamo dal punto di vista formale, il regime politico è rimasto immutato tra il 1922 e il 1943: eppure di colpi di stato ce ne furono indubbiamente due, la progressiva conquista dall’interno dello stato da parte di Mussolini (della quale la marcia su Roma fu solo l’innesco) e il suo arresto nel 1943.
In Occidente, da tempo, è più probabile che un regime autoritario si insedi al posto di un democratico arrivando al potere con mezzi costituzionali e poi erodendo l’ordinamento che non con un colpo di stato improvviso (e l’ultimo riuscito, in Portogallo nel 1974, segnò invece il cammino inverso, dalla dittatura alla democrazia). Constatando che in Europa il peso dell’esercito era stato ormai fortemente ridimensionato, ancora Luttwak escludeva che nel vecchio continente potesse verificarsi un colpo di stato se non in caso di un gravissimo dissesto economico o di una crisi disordinata del sistema partitico e parlamentare. Anche in queste ipotesi l’idea di un atto di forza istantaneo sembra ormai improbabile, quasi volgare. La crescente fragilità strutturale dello stato democratico europeo consente forme più invisibili e striscianti. Proprio questa circostanza ha condotto a un certo abuso dell’espressione “colpo di stato” nelle più svariate occasioni (in Italia tantissimo, poi), scambiando dolosamente una fisiologica e talvolta benigna flessibilità dell’ordinamento costituzionale con il suo svuotamento occulto.
E tuttavia, se guardiamo alle condizioni di rischio ipotizzate da Luttwak, sembrano tutte lì, sull’orlo di materializzarsi da un momento all’altro; e il sovranismo illiberale è un fenomeno ideologico, certo indebolito dalla crisi pandemica, ma ancora abbastanza in salute e, come dimostra il caso ungherese, in grado di compiere il salto di qualità golpista con le modalità soft (controllo della magistratura, della stampa, centralizzazione delle nomine pubbliche, compressione della sfera dei diritti civili): che soft appaiono, in verità, soprattutto se una quota consistente della popolazione si auto-esclude da una seria consapevolezza e partecipazione politica, come accade in Italia più che in altri paesi europei. Se la prima domanda intorno a un colpo di stato alle nostre latitudini è: nelle attuali condizioni storiche una fazione politica è in grado di prendere il potere con la forza? la seconda è: una volta che una fazione politica fosse pronta a esercitare la forza per conservare il potere, acquisito legittimamente ma impiegato in modo parzialmente abusivo, incontrerebbe una resistenza attiva della popolazione? Per capire se davvero il colpo di stato è un’eventualità remota per uno paese con una sufficiente tradizione democratica, la risposta alla seconda domanda non è meno decisiva della risposta alla prima.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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