Il problema del pluralismo in tv, ovvero l’esigenza di offrire democraticamente spazio alle idee che si contrappongono nel campo dei discorsi pubblici, in Italia dal dopoguerra ad oggi è passato per tre fasi.
La prima è stata quella della parità, o quanto meno della proporzione rispetto al loro peso parlamentare, dei partiti politici sullo schermo della Rai: l’esigenza affiorava soprattutto per le trasmissioni più strettamente elettorali o nell’imminenza di un referendum (che si sviluppava a sua volta sotto la tutela e mediazione dei partiti). Presto ci si rese conto tuttavia che la maggior parte delle informazioni persuasive passava per i telegiornali: in teoria anche in quelli si poteva equilibrare il pluralismo attraverso le interviste, ma rimaneva il fatto che i dirigenti, e per lo più i giornalisti, venivano assunti in quota ai partiti maggiori, con quella che si definisce lottizzazione, e le notizie non sempre confezionate secondo criteri di obiettività. Al di là della nota e contestata distinzione tra fatti e opinioni, peraltro, il concetto è piuttosto semplice: le persone tendono (o almeno tendevano) a credere maggiormente non a quello che qualcuno dice di sé ma a quello che gli altri dicono di lui, specie se “gli altri” sono un telegiornale.
La seconda è coincisa con l’avvento delle televisioni commerciali, ed in particolare con la creazione dell’impero berlusconiano. L’Italia si trovò divisa in sei reti ad ampia diffusione, tre pubbliche e tre appartenenti a un unico soggetto imprenditoriale, che se ne servì per sospingere la sua “discesa in campo” politica, persino a mezzo di quegli influencer che erano i conduttori dei programmi a quiz o degli spettacoli serali. La questione del pluralismo si pose a monte: una situazione di monopolio privato non è certo la condizione ideale di garantirlo.
La terza è esplosa negli ultimi due anni, e concerne la parità delle idee nel dibattito pubblico: dapprima con i vaccini, e poi con la guerra in Ucraina, due eventi che hanno diffuso la paura nella comunità scuotendola da un lungo e profondo riflusso nel privato. Per la prima volta dagli storici referendum (che però, come ho detto, erano filtrati dai partiti) l’Italia si è infervorata e divisa nel discorso pubblico (divisa, tuttavia, in un modo particolare, del quale dirò fra un attimo), ma della contesa fa parte non solo l’oggetto del discorso (i vaccini e la guerra) ma la pretesa che tutte le posizioni divergenti debbano ricevere spazio.
In tutti e tre i casi, come è chiaro, viaggiamo nel cuore pulsante nella democrazia, che viene irrorato da una buona qualità dell’informazione. I primi due, solo parzialmente risolti, sono chiaramente strutturali e teoricamente agevoli da rimuovere: da un lato si tratta di accantonare sia la nomina governativa che il criterio di lottizzazione per la tv pubblica e rendere indipendente sul serio la commissione di vigilanza; dall’altra, oltre la normativa antimonopolistica, serve applicare il principio di separazione dei poteri. Come ho scritto nel saggio Cosa resta della democrazia, una moderna separazione dei poteri non può più essere circoscritta alla storica triade legislativo/esecutivo/giudiziario: la separazione va riconsiderata non solo internamente alle funzioni politiche, bensì quale separazione delle funzioni politiche dalle funzioni sociali; e dunque una democrazia deve separare il potere politico dal potere mediatico e dal potere finanziario.
Il terzo problema è più sfuggente, perché se è vero che i contenuti pluralisti sono a loro volta strutturali dentro un sistema democratico di informazione, è anche vero che dare la parola a tutti è tecnicamente impossibile, e stabilire quali sono le “parti” polarizzate in una discussione pubblica è già una forma di selezione e censura, se la vediamo in termini di accesso. Le due pietre dello scandalo, i vaccini e la guerra, sono in effetti anomali: essi non rappresentano esattamente la dialettica tra due schieramenti ideologici contrapposti, perché la quasi totalità delle personalità pubbliche ritiene che i vaccini servano per curare il contagio, e obblighino socialmente a farseli somministrare, e sostiene che la Russia abbia la responsabilità di avere invaso l’Ucraina. Ma la pretesa di vedere rappresentata la posizione contraria nasce proprio da questa compattezza: il fatto che tutti dicano la stessa cosa viene screditato come prova dell’esistenza di un pensiero unico e di una narrazione dominante, a cui va contrapposto il pluralismo delle idee.
Quest’impostazione presenta diversi profili critici, e ha da misurarsi – specialmente per la rete pubblica – con la necessità di non divulgare un’informazione che indirettamente metta in pericolo la comunità. Negli Stati Uniti la libertà di portare armi è in evidente frizione con la protezione dei bambini nelle scuole (solo per citare un esempio: ovviamente sono in pericolo milioni di persone). Ma non si potrebbe certo impedire il dibattito sulle armi, che è una questione filosofica e che all’estremo potrebbe, per quanto concerne le scuole, trovare un equilibrio correttivo facendole presidiare dai marines e dai mercenari siriani.
Il vaccino, invece, per quanto concerne i suoi effetti, è una questione scientifica (filosofica semmai è la domanda se debba essere o meno obbligatorio). Il direttore di Rai3, Franco Di Mare, quale esempio della barbarie dei talk show, ne ha citato uno in cui discutevano del vaccino un virologo, un disc jockey e un teorico dell’urino-terapia (cioè, del benessere che garantisce bere la propria pipì). I divulgatori no-vax, nella migliore delle ipotesi, praticano discipline più o meno legate alla salute, che nulla hanno a che vedere con la virologia. Il dibattito pubblico su un tema di tale rilevanza collettiva esige una competenza specifica, e il guaio è che i neo-pluralisti, in questo campo, considerano la competenza una forma di conflitto d’interessi. Non è altro che l’estensione di quel bizzarro e tossico ragionamento per cui il miglior politico possibile è una persona che non ha fatto politica (e se invece che occuparsi dei problemi sociali per anni è riuscito piuttosto a fare soldi a palate è davvero il top). E soprattutto, l’etichetta di narrazione dominante addosso a quello che è lo sfondo condiviso oscura le tante differenze interne a quella narrazione, che invece di essere a loro volta dibattute sono condannate all’invisibilità (come dirò fra un attimo è un fenomeno ancora più evidente nel caso dell’Ucraina). Al tempo stesso, dove collocare il limite oltre il quale, in nome del pluralismo, si deve ritenere accettabile un’opinione apparentemente stravagante, o peggio un’enunciazione dei fatti arbitraria e presumibilmente falsa? Dal punto di vista di quelli che un tempo venivano chiamati “matti” tutto quello che dicono gli altri fa parte di un’assurda narrazione dominante. E per quanto riguarda i manicomi avevano pure ragione! Sarebbe stato per questo ragionevole invitarli nelle trasmissioni in nome del pluralismo?
Il caso della guerra ucraina, diversamente dai vaccini, si presta a dispute interpretative, in parte (solo in parte però) disgiungibili da una stretta conoscenza della politica estera. Anche qui però non manca un aspetto originale della situazione italiana, attualmente sotto l’osservatorio critico di tutta la stampa internazionale: nessun altro paese – beninteso, in nome del pluralismo – ha dato libero accesso a personaggi così chiaramente manovrati dal Cremlino, e alcuni dei quali pesantemente sospettati di essere delle spie. Nessuno ha consentito al ministro degli esteri russi di tenere un comizio, con l’intervistatore che è rimasto passivo di fronte alle affermazioni più sconcertanti e alla fine gli ha pure augurato “buon lavoro, ministro” (che è un po’ come se avesse intervistato Dracula con la luna piena, e poi gli avesse augurato “buona notte, vampiro”). Il direttore di Rete Quattro si è difeso sostenendo che si tratta di un documento storico. Ma sarebbe stato un documento storico intervistare Osama Bin Laden, ai tempi in cui non si sapeva se era vivo o morto: le frasi di Lavrov si recupereranno identiche in qualsiasi archivio. Non troppo dissimile è stata l’intervista di Giletti, che sembrava più una velleitaria missione di pace da parte di un contrito rappresentante dell’Occidente. A parte tale eccezionalità, il dibattito pubblico sulla guerra si segnala per la ricerca, da parte dei conduttori, dell’opinionista che presenta l’antitesi più estrema (sembra incredibile, ma qualche volta segue la stessa linea l’autorevole rivista di geopolitica, Limes). Ancor più che per i vaccini, dentro la cerchia di quegli schiavi della narrazione dominante che ritengono la Russia responsabile di un’aggressione militare a un paese sovrano e la sospensione dell’invio di armi un modo né onorevole per assicurare la pace né garanzia di sicurezza per il futuro, abbondano le differenze interne e i critici spietati (e militanti da tempi non sospetti) verso gli Stati Uniti e il militarismo. Ma sai che noia a spaccare il capello in quattro, e che complicazione fare audience se quelli si infilano nei rivoli del discorso, magari pure con tre subordinate. Molto più allettante catturare l’energumeno ribalta il tavolo, sia in senso figurato che fisico. Se per essere invitati in televisione bisognasse compilare un questionario a caselle, non farebbero punteggio le risposte esatte ma quelle da audience.
In verità, questo sfascio (che colloca l’Italia al settantunesimo posto della graduatoria mondiale dell’informazione) ha radici lontane e sconta tre lacune sostanziali. La prima è che l’intervistatore non fa la seconda domanda: ci fossero stati Enzo Biagi o Minoli, o anche Mentana (non Fabio Fazio, il cui massimo impulso etico sarebbe quello di non invitarlo) Lavrov in televisione sarebbe stata un’opportunità informativa. La seconda è che, con poche eccezioni, le trasmissioni non si adoperano nel fact cheking. Molte delle opinioni espresse si appoggiano su affermazioni false, o come minimo senza nessun riscontro probatorio. Eppure basterebbe, se non in diretta, darne notizia il giorno dopo, con l’ospite che nella liberatoria firma pure l’autorizzazione a far apparire la sua foto sotto la scritta “io sono un pagliaccio” nel caso che le sue affermazioni risultino a una verifica oggettivamente false.
D’accordo, ci sono casi in cui l’oggettività non si è ancora concretizzata. Nessuno può sapere con esattezza cosa è accaduto a Bucha: e così ciascuno è libero di avanzare dubbi ma fino a prova contraria (è importante, come in tribunale, sapere a chi spetta l’onere della prova) dobbiamo credere alla normalità, e cioè che a sterminare la popolazione sia un esercito nemico e non l’esercito degli sterminati. Se qualcuno insistesse sull’ipotesi che Russia e Ucraina non esistano più da tempo, e che vediamo solo degli ologrammi, il pluralismo ne suggerirebbe la presenza in tv (aggiungendola a quello di Red Ronnie, che lo correggerebbe chiarendo che si tratta di presenze aliene)? Poi capita pure che arriva una prova (certo, parziale, ma significativa), un video del New York Times, e non manca quello che mette in dubbio il New York Times su una cosa del genere…e che differenza c’è rispetto a quello dell’ologramma? O a quelli della legge Basaglia di cui parlavo prima? Anzi, se lo spirito è fare spettacolo, di sicuro vanno premiati questi ultimi.
E così arrivo alla terza lacuna: lo spirito è davvero fare spettacolo. L’informazione passa alla maggior parte degli italiani attraverso la formula ibrida dell’infotainment praticato nei talk show. Maurizio Costanzo, che pure mandò per anni in onda una trasmissione splendida e strettamente ancorata alla cultura, fu il primo a introdurre il mestiere dell’Ospite di trasmissioni, e a richiedere nel curriculum una serie di qualità buffonesche applicabili ai contenuti come alle forme. Lo esigeva solo per alcuni, ed era una forma di compensazione per lo spettatore che pazientemente seguiva fino a tarda ora argomenti di un certo livello. Ma il dado era tratto, e nel tempo simili modalità espressive, inevitabilmente riflesse sui messaggi, sono diventate il marchio di fabbrica dei talk show.
L’aspetto interessante è che, nonostante il tanto parlare sull’influenza dei social, lo schermo televisivo rimane un’aspirazione ineguagliata, e viene ancora considerato come l’influencer più significativo in campo politico-sociale. Proprio dalla struttura del web, però, si propaga l’idea che il pluralismo debba funzionare allo stesso modo che sui social, e che si sostanzi nel dare la parola a qualsiasi imbecille o dolosamente fazioso (quando anzi andrebbe ripensata la dinamica di funzionamento delle piattaforme). Non è solo questione di rotazione, come prospettano ora le nuove regole deontologiche della televisione pubblica: la prima preoccupazione per il pluralismo, al contrario, deve essere una selezione più adeguata, smettendo di far coincidere l’anticonformismo con il farsesco, il patologico, il truffaldino. Insieme a un cambiamento di principi di fondo e di deontologia: l’informazione può essere brillante ma va separata dallo spettacolo; lo spettatore che ascolta dati divergenti, al termine della trasmissione o in una sua appendice deve sapere quali sono quelli esatti; le regole di interazione tra gli ospiti debbono assurgere ad esempio di come ci si dovrebbe comportare in mezzo agli altri.
La prossima tappa critica del pluralismo televisivo sarà la puntuale affermazione, anche in sede informativa, dei punti di vista sul genere e l’identità: arrivarci con i presupposti di oggi sarebbe un disastro sociale. Siamo arrivati al punto che il modello di informazione è la cronaca della partita di calcio: nella quale, fra l’altro, da quando si è aggiunto un secondo commentatore, tutti trovano normale che si tratti di un allenatore o un ex giocatore e non di Mattarella, di Fedez o del segretario della Cisl. Vero che poi le tribune sportive sono aperte a tutti, e non meno ruvide e posticce dei talk show: ma si sa che è un gioco, e non ne viene danno a nessuno. Quando penso a come è attualmente inteso il pluralismo, quasi rimpiango il maestro Manzi, che insegnava sullo schermo la grammatica italiana alle masse, già allora male alfabetizzate. E nessuno lì ad alzarsi, in nome del pluralismo, per dire che su però l’accento non c’era.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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