Premesso che non mi occupo di hit, se siete del parere che un disco per l’estate debba essere comunque allegrotto quel che ho da proporvi è l’album Octophilia del gruppo balcanico Kermesz à l’Est, l’uscita forse più interessante di world music negli ultimi tre mesi: un estroso gruppo balcanico che in un amen fa slittare ballate greche, azere e romene dal fracasso bandistico a un molleggiato dub, e a prova dell’eclettismo riarrangia pure Lully o Richard Strauss. Piacerà a chi ama Bregovic ma è meno rumorista e zingaresco e per nulla kitsch. Comandano i fiati, che non si (e non ci) negano momenti di dolcezza, quando cala il dominio dei tromboni. Lo sviluppo dei brani non manca mai ma non è prevedibile, il ritmo è costantemente sincopato e a un certo punto sembra che entri Paolo Conte come featuring (non prendetemi alla lettera).
Ma non è che tutti vivano l’estate alla stessa maniera. Se, all’opposto, trovate che sia il momento giusto per la cupa introspezione ho sotto mano quello che fa per voi: il doppio The Beggar, degli Swans. Al di là dell’umore, tuttavia, i fini palati musicali amanti del rock non se lo faranno di certo scappare, perché è la più ghiotta uscita del momento nel genere, e potrebbe anche essere un disco storico. Gli Swans infatti sono probabilmente la più significativa rock band del XXI secolo (trattandosi di formazione quarantennale avevano fatto cose buone anche in quello precedente, a cominciare dagli esordi no wawe), e il loro carismatico leader, Michael Gira, nei suoi testi (che però forse non vanno presi alla lettera neppure quelli) lascia presagire che potrebbe essere l’ultimo disco, e abbonda nei saluti e nella tetraggine, che già è un po’ il marchio di fabbrica. I brani sono tutti molto lunghi (uno, addirittura di 43 minuti, che non si fa mancare il pendolarismo tra echi industrial e vocalizzi fantasmatici), orbi della chitarra elettrica, di impronta sinfonica e un suono elettronico pastosamente compatto, l’inestirpabile matrice dark-gothic tutto sovrasta ancorchè addolcita nel rumorismo. La voce cavernosa di Gira ha ormai virato verso il parlato, l’invarianza e la ripetizione hanno un certo peso dentro un accumulo ipnotico in cui monta una tensione emotiva fortissima.
Per la classica, torniamo a qualcosa di più soave. Zlata Chochieva, russa, è uno dei talenti pianistici più cristallini di questi anni, e molto aveva impressionato nel 2022 in Chiaroscuro per la perfetta padronanza di Scriabin e Mozart. Il brano che dà il titolo a questa nuova raccolta è Im freien di Bartok, più precisamente il quarto dei brani che compongono quella suite, una pagina molto complessa sia all’ascolto che all’esecuzione, qui impeccabile e dilatata. Non è per questo però che consiglierei il disco bensì per il ciclo di miniature di Schumann, Waldszenen, più noto all’epoca che ai giorni nostri, citato altresì da Oscar Wilde in un passaggio di Dorian Gray, e per l’analogo ciclo di Ravel Miroirs, accomunati dal riferimento alla natura (anche in Im freien, peraltro, vi sono imitazioni di suoni animali e pastorali). Mettiamoci anche due studi di esecuzione trascendentale di Liszt e comprenderemo che questa trentottenne è capace di passare da un compositore all’altro, dando l’impressione ogni volta di stare a casa sua, e ogni volta maschera il notevole virtuosismo con una propensione meditativa e la scelta di piccoli allungamenti di alcune pause.
Ancor più sul velluto procedo segnalando un sin qui poco conosciuto israeliano che sulla scia dei connazionali Yaron Herman e Yonathan Avishai- peraltro ormai di residenza a Parigi- mostra la crescita del pianismo jazz del paese: si tratta di Uriel Herman (solo un’omonimia con Yaron), con il suo album in trio Differente eyes, composto da melodie tenere e di ascendenza mediorientale. Nel suo bagaglio emergono gli originali studi classici, cui rende formale omaggio con uno svisatissimo preludio chopiniano, ma l’apertura mentale gli ha suggerito di rifare (non è la prima volta) persino Kurt Cobain. A pieno organico il trio accelera il ritmo, da solista l’accompagnamento della mano sinistra ricorda quello di Bjornstad. Il meglio del disco però arriva quando entra in scena l’ospite, il trombettista Itabar Boromov, nello struggente duetto iniziale di Jerusalem.
Quanto a trascendere i generi, però, nessun jazzista può ormai battere Brad Mehldau, che dopo le ultime due uscite- un riadattamento di Bach e uno dei Beatles- propone con il consolidato partner dal vivo, il tenore Ian Bostridge (forse il miglior interprete di Britten in circolazione) liriche amorose con testi di Blake, Yeats, Shakespeare e così via sulle quali ha composto le musiche, con l’aggiunta di un lied di Schubert e alcuni standard jazz. I brani di “The Folly of Desire”, da anni presentati in concerto, esplorano soprattutto i profili torbidi, ossessivi e anche volgari del desiderio. Si discute se Melhdau non sia troppo solista per un simile accompagnamento ma il dialogo musicale tra questi due colossi è ampiamente collaudato, anche se nell’incisione perde un po’ dell’istrionismo live e con esso una parte della sua varietà di toni.
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