La direzione dei nostri dialoghi non è casuale
Avere qualcuno con cui parlare è una risorsa significativa delle nostre vite. Certe volte, però, anche un ingombro. Possono esserci persone che vogliono parlare con noi e non il contrario, o almeno non con la stessa frequenza, e non negli stessi momenti. E accade di rimanere insoddisfatti di una conversazione: perché non siamo riusciti a esprimere quello che volevamo o perché stata noiosa, o per qualche ragione che non ci viene facile esattamente inquadrare. Sul tema, ho già pubblicato qui sul wrog un decalogo (soprattutto etico) della conversazione e la declinazione di quattordici indici della qualità di qualsiasi conversazione, da quella tra innamorati a quella professionale o tra negoziatori politici, per rendersi meglio conto di quando (e perché) stiamo parlando inutilmente (intendendo il concetto di utilità in chiave performativa rispetto allo scopo ma non produttivistico).
In quest’articolo voglio brevemente soffermarmi su un altro profilo fondamentale del conversare, ovvero il potere di indirizzo sui suoi contenuti. In parole povere: chi decide di cosa si parla?
I criteri di decisione, solitamente non esplicitati, sono:
- Regole di potere.
- Regole di funzionalità.
- Regole di etichetta.
- Regole di ospitalità.
- Regole di legame.
- Motivazione egocentrica.
- Intenzione informativa.
Nelle situazioni più formali la prima regola è quella del potere: si tratta di un’evidenza in un contesto gerarchico (nel quale spesso il superiore decide per prima cosa se la conversazione viene avviata o meno), che tende a prodursi anche quando uno dei partecipanti gode di un’aura che incute soggezione negli altri e li rende preoccupati di elevarsi nella sua considerazione. Costoro tenderanno a compiacere l’individuo prestigioso e saranno onorati di ascoltare una sua confidenza o condividere un suo parere. È ben possibile che, ad esempio, un noto cantante o scrittore sia avvicinato da un aspirante emulatore, e costui cominci a stordirlo parlando dei brani o dei testi che ingiustamente giacciono nel suo cassetto invece di intasare le tv o le librerie. Ma la conversazione morirà nel momento in cui nasce: l’unico obiettivo della “star” sarà di liberarsi del suo molestatore. In realtà, il vizio sta nel fatto che gli argomenti vengano introdotti senza il suo consenso. Perché scatti la regola del potere, tuttavia, non è necessaria un’obiettiva e plateale differenza di popolarità. Il potere può anche essere ridotto, temporaneo e soprattutto contestualizzato (cioè proprio di uno specifico ambiente, e solo di quello).
Se non vige una regola di potere, il primo criterio suppletivo è la funzionalità, che anzi in casi più di urgenza può scalzare le regole di potere: le persone iniziano una conversazione perché è loro interesse raggiungere un obiettivo congiunto, che si tratti di organizzare le vacanze estive tra amici, condurre una trattativa commerciale, discutere sulla riparazione del tetto condominiale o risolvere il mistero della trinità in una disputa tra teologi. Si potrebbe pensare che passando dal potere alla funzionalità ci si sposti verso un’area più democratica, che cioè la decisione sul contenuto sia condivisa e non influenzata dalla posizione sociale degli interlocutori. Ma di solito anche la funzionalità attribuisce un potere a qualcuno, anche se di tipo tecnocratico: ci sarà cioè qualcuno che, per le specifiche competenze del caso, è preferibile che decida di cosa si parli (se si deve organizzare un viaggio in Francia la persona che ci è già stata oppure quella che gestisce il budget). Più probabilmente che con le regole di potere, l’argomento sarà di comune interesse – se no non avrebbe a cosa essere funzionale – e la turnazione nella parola tendenzialmente più applicata.
Quando l’incontro fa parte della sfera mondana e non esiste una funzionalità se non indiretta (ad esempio allargare la cerchia sociale e ricavarne clientela da parte di un imprenditore o un professionista) si entra nel territorio delle regole di etichetta, che fungono prima di tutto da “filtro” (bloccano i contenuti di cui è inopportuno parlare) e richiedono di essere integrati dalla competenza pragmatica riguardante il contesto. Anche se, per come vengono intese, le regole di etichetta descrivono la ritualità degli ambienti aristocratici e alto-borghesi, le regole sottintese che regolano le conversazioni in cerchie piccolo borghesi e proletarie non sono meno severe e restrittive: solo rispondono a codici differenti.
La sottospecie più interessante all’interno dell’etichetta sono le regole di ospitalità, che sono suscettibili di conflitto e fraintendimento e soggette a forti variazioni nelle diverse culture. Alle nostre latitudini, quando si tratta di guidare la conversazione, sembra più sacro il padrone di casa che l’ospite. È normale attendersi che sia il primo a “dare le carte” nella conversazione, così come assegna i posti a tavola o le sistemazioni letto. Come tutte le altre, le regole di ospitalità e quelle di etichetta sono sovrapponibili. L’etichetta suggerisce al visitatore di impadronirsi ciclicamente del discorso per apprezzare e lodare le virtù dell’ospitalità che gli viene riservata (non per forza ipocritamente, anche selezionando quelle vere). Ma per il resto, dovrebbe essere il padrone di casa a stabilire un equilibrio di contenuti (e se fallirà in questo ruolo sarà considerato un cattivo padrone di casa).
Questi quattro criteri sono tutti piuttosto convenzionali: essi richiedono che si conoscano le regole sociali, e sono relativamente indifferenti all’identità concreta delle persone che conversano. L’opposto accade nelle regole di legame. Più la relazione contiene (o guadagna nel corso) risvolti affettivi, confidenziali o di intensa simpatia o antica conoscenza, più l’osservanza minuziosa degli altri criteri tradisce quell’intimità. Quando la conversazione è sottoposta alle regole di un legame, a decidere di cosa si parla è colui che manifesta un bisogno. Le regole di legame hanno una potenza sovversiva e disinibente, che pure non impedisce che quella spontaneità soccomba sotto il peso di una soggezione personale (che ripristina dunque il funzionamento di una regola di potere).
C’è un’altra perversione della regola di legame (in grado di alterare anche le regole di etichette e ospitalità) e persino quelle di funzionalità, ed è la motivazione egocentrica. Qui di cosa si parla viene stabilito da chi si appropria di questa decisione: per lui la conversazione è un pretesto per mettere in scena sé stesso. Della conversazione rimale lo scheletro, dato che l’egocentrico la trasforma in un monologo.
All’opposto, l’intenzione informativa tende verso l’altro, ma si manifesta in due forme opposte: o l’intenzione di informare l’altro per qualcosa che lo riguarda (ad esempio avvertirlo di un pericolo che corre), che realizza – come nella motivazione egocentrica – un colpo di stato dentro la conversazione (cioè una decisa presa della parola); o l’intenzione di ascoltare l’altro per raccogliere informazioni, riconducibili a curiosità, apprendimento o empatia, e si sostanzia in un’apparente rinuncia a condurre la conversazione, stimolando apertamente con delle domande l’interlocutore – una rinuncia apparente, in realtà è colui che si pone come intervistatore discente o confidente che decide di cosa si debba parlare.
Un esperimento che chiunque può trovare interessante è porsi, in qualche occasione, come analista della conversazione che sta sostenendo e giudicare a posteriori quale sia stata la regola dominante che ha fatto di qualcuno il decisore dei contenuti; e poi riflettere se la regola ha funzionato correttamente, e soprattutto se fosse quella giusta da applicare considerando il contesto e la relazione. L’obiettivo finale sarebbe quello di scoprire quali dinamiche relazionali fossero veramente in corso (oppure, andando più a fondo, quale rapporto veramente intercorra tra le persone che hanno conversato).
Le relazioni sociali, come già dimostrò Erving Goffman, hanno una natura drammaturgica e inducono gli individui a interpretare un ruolo, o meglio più ruoli differenziati dipendenti dai diversi contesti. Anche indossando quella che Goffman chiamò alternativamente (e con una sfumatura di differenza corrispondente a un’evoluzione di pensiero) “maschera” o “faccia sociale”, agli individui rimangono ampi margini di creativa spontaneità e improvvisazione. Si deve però essere certi di non stare interpretando la pièce sbagliata, a volte per conformarsi, ed altre per orientarsi verso nuovi palcoscenici che siano consoni alle proprie aspirazioni e sensibilità.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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