Nella storia delle teorie complottistiche, il negazionismo del Covid costituisce in qualche modo un unicum. Non si tratta infatti di
immaginare un’intesa dentro un governo, un’etnia, una rete o un circolo occulto, bensì di prospettare un’azione maliziosamente concertata dai leader di tutte le nazioni del mondo, qualunque ne sia il colore
(salvando giusto quelli che tardi e obtorto collo sono stati costretti a prendere misure di contenimento come Trump e Bolsonaro, cioè quelli al vertice di paesi che hanno cumulato un numero di morti ampiamente sopra la media). Tuttavia, prima di ascrivere le radici del negazionismo all’esclusiva matrice dell’irrazionalità e della manipolazione politica vale la pena di soffermarsi su quella che tra le sue argomentazioni parrebbe in prima battuta meno illogica e, poi, domandarsi se non vi sia qualche responsabilità scatenante anche nella gestione politico- sanitaria della pandemia.
L’argomento in questione è addirittura matematico, e mette a confronto i dati statistici riguardanti le altre piaghe che affliggono l’umanità, constatando che alcune provocano più morti, senza che per questo venga sconvolta l’organizzazione sociale. Per quanto presentate spesso in modo tendenzioso e impreciso, le cifre effettive mostrano quanto pesante sia ancora la scia di vittime che lasciano, ad esempio, l’Aids (che nonostante il notevole decremento non scenderà nel 2020 sotto le 500.000 vittime) o la malaria (che sarà di poco sotto), per non parlare evidentemente dei tumori o, girando ancora più largo, della fame o degli incidenti stradali o, per rimanere più stretti, delle circa 600.000 persone che muoiono per le conseguenze respiratorie delle influenze.
Superata la suggestione iniziale, tuttavia, qualsiasi persona ragionevole rifletterà sul fatto che la pandemia in corso cumula caratteristiche che la collocano su un piano differente: è contagiosa (differentemente dal cancro); è universale (diversamente dalla malaria, che causa morti solo in 17 paesi) e dunque soggetta a variazioni della diffusione che dipendono dalle condotte di qualsiasi persona al mondo; più precisamente, il contagio non dipende da condotte specifiche legate a cattive abitudini di igiene, a condizioni di indigenza o a comportamenti riguardanti una singola sfera (ad esempio sessuale) ma dall’esercizio di tutte le normali e quotidiane attività. Potremo dunque approfittare dell’occasione per stigmatizzare la scarsità di risorse destinate al sistema sanitario nel suo complesso o alla sua indifferenza verso mali che toccano solo alcune classi sociali o aree geografiche più desolate (però chi nega la gravità del Covid si mostra altrettanto poco interessato agi oltre 1000 morti quotidiani dell’India), e tuttavia per le ragioni appena dette è inevitabile che una pandemia venga trattata diversamente e implichi il dispiegamento di misure emergenziali e restrittive delle normali interazioni. Nonostante l’esistenza di tali provvedimenti, il numero dei morti è prossimo ai 900.000, cifra probabilmente sottostimata.
D’altronde sarebbe contraddittorio sostenere che non ci sono così tanti più morti di Covid rispetto a malaria e Aids, e al tempo stesso lamentarsi delle misure eccezionali, perché evidentemente tra i due aspetti esiste una correlazione (senza i lockdown i morti sarebbero stati assai di più). E al tempo stesso si tace che l’allarme del mondo scientifico – tutto, evidentemente anche quello intento a cospirare – non riguarda tanto la letalità quanto la pressione che verrebbe esercitata sul sistema sanitario. Da essa discenderebbe non solo la terribile decisione etica di scegliere chi far morire per mancanza di posti, ma anche – come è già capitato – l’allentamento delle terapie e della prevenzione delle altre malattie. La circolazione del Covid dunque rende sensibili all’aumento anche i dati di ogni malattia, pure quelle croniche e non contagiose.
Tuttavia, nel momento in cui constatiamo che la pandemia contiene una forma di eccezionalità spaziale ma anche una temporalità non necessariamente contingente (gli annunci sul vaccino sin qui sono più un penoso balletto demagogico e geopolitico che l’imminenza di una soluzione), mi pare necessario che essa vada contestualizzata nel quadro di una vita che pur deve continuare a fluire con gli adattamenti del caso. In questa cosiddetta “nuova normalità” non è possibile continuare ad applicare il parametro di una prudenza all’ingrosso, una tendenza, nel dubbio, ad abbondare nei divieti e nelle imposizioni (qui avevo indicato i gravi limiti di tale atteggiamento). Così come nel conflitto tra tutti i diritti si applica un criterio di bilanciamento caso per caso, senza che uno schiacci tutti gli altri, così anche la tutela della diffusione del Covid deve essere contemperata con le altre espressioni dell’individuo e della società, talvolta anche sottraendo qualcosa sul piano della sicurezza. Né si dica che la tutela sanitaria dal Covid incarni un diritto alla vita che deve sempre prevalere: il collasso economico non è solo l’antitesi produttivistica alla ragione scientifica, ma anche il campo d’azione dentro il quale reperiscono le risorse necessarie alla sopravvivenza.
Ho già avuto occasione di scrivere come le mascherine siano un po’ l’emblema di questo atteggiamento di sovrabbondanza. Mi ha stupito vedere la Francia passare in pochi mesi da un disinteresse a dir poco superficiale verso il loro utilizzo negli spazi interni a una militarizzazione facciale in qualsiasi spazio aperto. I tribunali amministrativi di Strasburgo e Lione hanno giustamente censurato tale misura, osservando come non distinguere tra orari e spazi indichi un’inaccettabile compressione delle libertà (e devo riconoscere che, con il suo sovrappiù di teatralità, l’analoga ordinanza di Sgarbi da sindaco era argomentata altrettanto correttamente). A Parigi a un certo punto dovranno spiegare come siano compatibili la mascherina all’esterno e 22mila ristoranti aperti, specie quando sarà terminata la stagione dei dehors. La mascherina tout court semplifica troppo il discorso, e questo la rende facile appiglio simbolico dei negazionisti che nella semplificazione sguazzano.
L’interpretazione dei dati si è rivelata sin qui più materia per aruspici che per scienziati. Al carico mediatico professionale che quotidianamente ne grava la trasparenza (una titolazione corretta evidentemente non fa parte della dotazione civica che il momento esige), si aggiunge la dimensione spettacolare che ha assunto la partecipazione dei virologi. Però sembra difficile negare che la gravità sintomatica attuale sia diversa da quella sperimentata nell’autunno. Certo, non si deve abbassare la guardia, però trattare sempre i cittadini come bambini, piuttosto che affinarne la responsabilità, finisce per stuzzicare la regressione dei più infantili e dare corda a un negazionismo complottista di secondo grado, che trae la sua legittimazione dall’opacità dell’informazione e dall’incoerenza della gestione. E anche da un certo parallelo infantilismo dell’analisi che orienta i decisori.
In questo senso, in Italia è stato sconcertante lo sconcerto che i decisori o i loro consulenti scientifici hanno manifestato per il rialzo dei contagi durante l’estate, in realtà del tutto prevedibile una volta che – inevitabilmente – erano stati riaperti i confini e si lasciavano circolare i visitatori, oltre che per decompressione individuale, per dare respiro a quell’industria turistica sulla cui sorte si stanno levando alti lai. In completa schizofrenia, nel volgere di nemmeno di un mese, siamo passati dalle proteste del Ministro degli Esteri verso la Grecia, che non accettava senza quarantena i turisti italiani ancora per una decina di giorni, al biasimo più o meno esplicito di quelli che in Grecia c’erano poi effettivamente andati, e verso i quali si prospettava al rientro quarantena. Come se poi fosse saggio chiedere loro di concentrarsi tutti nelle stesse località italiane (nelle quali, per giunta, rimanevano aperte le discoteche). E infatti buona parte dei contagi da quelle località sono provenute. Alla fine – come parrebbero mostrare i numeri di contagi dell’Italia a confronto con Francia e Spagna – la gestione concreta in Italia è stata anche buona. Ma i messaggi che circolano sono caotici e infarciti di un allarmismo generico, in luogo di un richiamo stretto a poche, sane regole, quelle da far rispettare severamente.
Sarebbe un bel guaio se la riapertura delle scuole venisse maneggiata con lo stesso disordine emotivo e la medesima imperizia comunicativa. Lì si scherza col fuoco, e se non chiariamo da subito che un incremento dei contagi sarà nell’ordine delle cose e non ci prepareremo a trattarlo in modo sereno e programmato si scaverà presto un solco antagonistico tra le scuole e i genitori. È dalla tenuta della scuola che si capirà se la tutela dal Covid non diventerà una resa alla “vita nuda” di cui parla Bernard-Henry Levy, nel suo stimolantissimo ed equilibrato pamphlet “Il virus che rende folli”. Trovo una potente immagine simbolica di questa follia la normativa australiana che ha consentito, con l’allentamento del lockdown, di andare in spiaggia ma al contempo vietato di costruire castelli sulla sabbia.
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