DIECI PEGGIORAMENTI DELLA TECNOLOGIA DIGITALE SUI DEVICE

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Perché stanno accadendo

Chiunque, se non se ne è già accorto, può facilmente rilevare che:

  1. Il flusso di contenuti non desiderati che intasano lo schermo si è moltiplicato.
  2. L’ingresso in un qualunque sito web è preceduto e accompagnato da una quantità spropositata di pop up.
  3. Il correttore automatico è diventato più dispotico, e bisogna insistere per farlo arrendere.
  4. L’assistente vocale preme ossessivamente affinché lo si installi ed usi.
  5. La qualità delle risposte alla ricerca di Google è peggiorata, non appena la richiesta scende più in profondità.
  6. La qualità delle immagini che Google propone in richiesta alla ricerca di un’immagine è orribile.
  7. Il potere reale di negoziare la cessione dei dati è inesistente.
  8. La qualità linguistica dei testi pensati per attirare traffico è drammatica.
  9. Sempre più app vanno in conflitto fra loro.
  10. I post sui social hanno esponenzialmente ridotto il numero di visualizzazioni.

Naturalmente questa sintesi non pretende di esaurire l’evoluzione della tecnologia digitale da schermo. Ad esempio l’avvento di Chatbot e altre IA (al di là dei dubbi etici in prospettiva sulle future ricadute sociali di certe applicazioni) hanno reso più facile e veloce l’elaborazione di alcuni testi e possibili conversazioni fra persone che parlano lingue differenti. Non a caso quella è stata una botta di vita in un sistema che comincia anch’esso a pagare la legge dei rendimenti e utilità decrescenti. Puoi sentire più musica o fotografare meglio, ma non è lo stesso scarto rispetto a quando improvvisamente hai cominciato a sentire musica gratis (qui sorvolando sul difficile equilibrio economico per gli artisti) o a fotografare ad alta definizione senza bisogno di spendere un botto per le attrezzature. È fisiologico: qualunque attività, e alla fin fine la nostra specie tutta, a un certo punto è costretta a disilludersi sulle magnifiche sorti e progressive.

Nella lista che ho indicato però non c’è solo un rallentamento: c’è il fallimento di alcune promesse iniziali. L’advertising ridefinì la sua fisionomia indicando nel web il futuro della pubblicità, perché – si diceva – contrariamente alla tv, non interrompe. A rileggerli adesso certi strombazzamenti, ci si può fare davvero una risata, constatando come invece la pubblicità nella tv si aggiusti educatamente con i programmi mentre sul device irrompe come un cavallo imbizzarrito. Leggere un articolo o guardare un video è molto più disagevole che qualche anno fa: si dirà che siamo pur sempre fruitori gratuiti (oltre che merci, per via dei dati che ci vengono sottratti) e c’è un problema di sostenibilità economica delle piattaforme: e infatti quello è il punto, che era una falsa promessa. Le aziende hanno dovuto constatare che la concorrenza sulle visualizzazioni costringe a più cospicui investimenti per ottenere comunque un numero ridotto di click e ancor meno di conversioni (e scopre anche che il famoso engagement era ed è una bufala, se non per un numero esiguo di grandi brand o per i volatili consensi di cui gode un influencer. Al di là delle aziende, comunque, il quadro di declino cui ho fatto riferimento nei dieci punti concerne soprattutto l’utente comune (e quindi la persona che disegna una parte cospicua delle sue aspettative e condotte nel muoversi come utente).

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Sarei folle se con il termine “declino” pensassi a un regresso irreversibile delle prestazioni: penso però ancora peggio, e cioè che si tratti di un transitorio declino programmato, termine con cui intendo richiamare quell’altra aggressiva prassi aziendale che abbiamo ormai digerito, l’obsolescenza programmata (ovvero, in pesante controtendenza nella storia degli oggetti, produrre artefatti che si rompono presto, sia per vendere quelli che saranno prodotti in loro sostituzione sia per non cimentarsi nel difficile compito di tenerli in vita attraverso upgrade interni della tecnologia). Perché?

Diciamo che con le piattaforme digitali in origine funzionava così: ti offriamo servizi non in cambio di un contestuale ritorno monetario ma in cambio di pubblicità (versione soft) e in cambio dei tuoi dati (versione realistica). C’era un rispetto delle apparenze, nel senso che nel gioco della priorità la qualità dei servizi era al centro. Sono insorti tuttavia due problemi: il primo è che le piattaforme non hanno tempo da perdere nello sviluppo dell’IA; così la priorità attuale non è evolvere la qualità del servizio bensì farci propendere verso strumenti diversi, anche se al momento peggio funzionanti, quali l’assistenza vocale. Per rendere meno evidente il deficit di quest’ultima, indebolire il funzionamento più ordinario dei device (cioè, fuori dai comandi vocali) è una soluzione più veloce per far guadagnare clienti all’assistenza vocale – e, certo, in prospettiva, renderla più efficiente, dato che essa migliorerà quanti più saranno i suoi utilizzatori. Al tempo stesso, l’IA viene introdotta per gradi, generando, in questa fase di passaggio, frizioni tra applicazioni. Infine, l’errore dell’utente, o meglio ancora la correzione che l’utente attua verso l’errore istigato dal device, sono il fattore decisivo per l’apprendimento dell’IA: da qui l’eccesso di interferenze del correttore automatico. Quando ripete la correzione, che noi avevamo trovato inappropriata alla circostanza, non lo fa per noi: lo fa per sé, per essere certo di aver capito bene ai fini dell’apprendimento. Quel che accade sul device, dunque, non è quel che giova a noi ma quel che giova all’algoritmo. Può darsi che nell’ottica di uno sviluppo dell’IA sia una strategia sensata, ma dobbiamo essere consapevoli che, mentre diamo corso alle nostre azioni per via digitale, l’algoritmo non è soltanto lo strumento per compierle come conviene a noi ma parimenti l’antagonista che ne indirizza la sequenza per come conviene a lui (rimando a quanto ho già scritto riguardo al rapporto tra noi e lo smartphone). In più, siccome l’algoritmo non è che può prendere nota di ciascuno per nome e cognome e perdere tempo con le nostre individualità, il suo interesse di fondo è renderci prevedibili e omologabili (il correttore automatico ha anche quest’obiettivo tra le sue funzioni, e non è il solo). All’algoritmo viene comodo cosificarci. Per rendere più intelligente se stesso ha necessità che noi ci abbassiamo al livello della macchina, che ci pieghiamo a essere stupidi come quella (ho sviluppato quest’argomento nel mio ultimo saggio Quanto siamo ripetitivi).

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La seconda spiegazione del declino programmato riguardo alla qualità del servizio, è che il concetto di qualità ne esce trasformato. Google può raccontare quel che vuole sul criterio del maggior valore per l’utente con cui ordina il ranking e sui dieci fattori che lo soddisfano, ma la verità è che mentre ci serve i risultati implicitamente ci domanda: vero che cercavi qualcosa di commerciabile? Qualcosa di banale? Qualcosa di recente?  Non è affatto vero che cerchi l’autorevolezza (nelle ricerche veloci in materia di diritto, ad esempio, mi sta capitando sovente di trovare in testa alla SERP fonti scadenti, e agghiaccianti affermazioni sbagliate nel breve testo scritto che in capo alla pagina sintetizza in poche righe una risposta), e tanto meno che apprezzi i contenuti originali. Devono essere originali, nel senso che non si devono copiare da altri, ma non certo nel senso che pongano punti di vista non omologati. Al contrario, Google esige somiglianza, e i contenuti debbono inseguirla sacrificando ogni asperità di ragionamento. Per Google buono è sinonimo di semplice, e questo suo magistero rinforza il desiderio popolare di ottenere informazioni semplici. Nel che non ci sarebbe nulla di negativo, anzi, se non fosse che la gente prova ormai una seria avversione per il complicato: che tale, a volte, non è perché viene spiegato malamente ma proprio perché è complicato di suo. E richiederebbe uno sforzo intellettivo, e applicarsi umilmente per ricevere la cultura di base per realizzarlo.

Stavamo meglio quando stavamo peggio? Certo che no, questa tecnologia contiene in sé una potenza positiva eccezionale. Ha solo quel difettuccio, che gli unici a decidere come funziona (e quindi come funziona la rete tutta) sono un gruppo di aziende monopoliste che la ordinano secondo il proprio tornaconto economico. Una posizione di potere grazie alla quale persino il malfunzionamento degli apparecchi diventa un fattore strutturale di successo, al pari peraltro del malfunzionamento umano.

Di |2024-12-06T16:51:26+01:006 Dicembre 2024|2, Limite di velocità|

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