E se Whatsapp fosse un pericolo pubblico? Non esattamente con queste parole, ma con una sostanza non dissimile, quest’estate il Guardian ha pubblicato una lunga riflessione critica sul sistema di messaggeria più diffuso con i suoi due miliardi di utenti, avanzando riserve soprattutto su due punti.
Il primo riguarda la propensione che WA avrebbe alla diffusione delle fake news, che sarebbe prepotentemente emersa nell’epoca del Covid. Per rimanere in Italia, basta ricordare la propagazione della bufala sulle responsabilità del 5G nella malattia, i reiterati audio in cui qualche operatore sanitario abbondava negli allarmismi sullo stato clinico dei ricoverati ragazzini o la recente fake per la quale, in caso di febbre registrata in classe, i ragazzi verrebbero cautelativamente “sequestrati” dalla scuola senza avvisare i genitori. Il Guardian, andando all’indietro, ha addebitato a messaggi falsi su WA un peso non indifferente nei successi elettorali di Modi e Bolsonaro, e ha denunciato una sistematica strategia infiltrativa dei partiti politici inglesi dentro i gruppi (si potrebbe considerare troppo dispersivo come cavallo di Troia un ambiente digitale polverizzato in entità che contano al massimo 256 partecipanti, ma la possibilità di mandare messaggi “intergruppo” – ora frenata da WA – consente di coprire fino a 60.000 persone, immaginando però che ogni membro si attivi con un messaggio). Secondo tale punto di vista, una certa segretezza cospirativa calza all’invisibilità (hacker a parte) che copre i gruppi al di fuori dei suoi membri; quanto alle dinamiche interne, nei gruppi WA si tende a non contraddire o smentire chi veicola un messaggio: perché?
Qui arriviamo al secondo punto, psicologicamente e sociologicamente il più interessante, elaborato riprendendo le brillanti – e precocemente accantonate – analisi sociali dei gruppi compiute negli Stati Uniti tra gli anni ’40 e ’60 (peccato che l’articolo non citi Taifen, a cui si deve uno degli approfondimenti più significativi). Con qualche mia integrazione, la traccia suona così: le persone tendono a unirsi in gruppi; il gruppo contiene delle proprietà “emergenti”, differenti cioè da quelle dei singoli membri; l’appartenenza al gruppo fornisce autostima e contribuisce all’identità individuale, fosse anche a titolo transitorio; anche se l’elemento di aggregazione è apparentemente secondario, i gruppi hanno una forte capacità divisiva, cioè rinforzano il loro senso di affiliazione compattandosi contro i gruppi esterni (insomma, se si forma per qualche ragione e per un tempo evidentemente limitato un gruppo di quelli che hanno la maglia rossa, da un lato, e un gruppo di quelli che hanno la maglia gialla, dall’altro, tutti questi meccanismi funzionano egualmente); la solidarietà interna al gruppo, unita a quel senso di appartenenza, spinge al conformismo.
Applicando gli stessi criteri di definizione al gruppo WA – persino quando esso lega persone soltanto per uno scopo specifico, a termine e funzionale – se ne ricava che i gruppi tendono a essere internamente costruttivi ma esternamente oppositivi. Se si tratta di un gruppo di genitori di studenti, si focalizzerà su sospetti, suscettibilità e antagonismo verso l’istituzione: sarà più probabile che le carenze dei ragazzi siano addebitate alla scuola o ai suoi docenti. D’altro canto, l’istituzione che a sua volta prova a sfruttare WA per la velocità e compattezza comunicativa ne trarrà misero profitto, perché il social annaspa per sua natura (e per disegno della sua infrastruttura) quando si pretende di impiegarlo per finalità di interesse pubblico.
L’analisi è piuttosto corretta, ma in diversi passaggi si appoggia su un fraintendimento: se da una parte qualifica come fragile e condizionata l’autonomia del soggetto, dall’altra ipotizza che egli agisca con sincerità personale e fiducia verso la sincerità del resto dell’in-group. Sarebbe questo legame autentico-fiduciario, insieme alla fisiologica lealtà di gruppo, la chiave decisiva per rendere i messaggi che pervengono dentro il gruppo meritevoli di credito e di condivisione. In realtà, WA – al pari di Facebook o di Instagram – rende assai attuali le storiche teorie del sociologo Erving Goffman, che spiegò che i rapporti sociali sono una rappresentazione drammaturgica in cui ognuno agisce come maschera. Si potrebbe erroneamente immaginare che il carattere privatistico dei social, e specie quello ristretto e a numero chiuso di WA, li renda un luogo in cui si sorprende l’individuo nel suo “backstage”, fuori dal cuore della sua rappresentazione sociale. Ma non è affatto così: tutte le tipologie di gruppo digitalmente mediato lo esortano a mettere in scena una versione pubblica di sé. Direi che gli utenti tendono a una certa indulgenza e riduzione della soglia di consapevolezza rispetto alla propria “rappresentazione”; ma sono più smaliziati verso quelle altrui.
A confronto di altri social, questo sì, WA conserva una maggiore parentela con le relazioni “analogiche”, grazie a un più puntuale sincronismo delle interazioni, a una certa pluralità di registri (la foto condivisa, il messaggio vocale, il testo possono seguirsi l’un l’altro), a un contenimento dell’esibizione narcisistica (benché l’aggiornamento dello stato maneggiato ossessivamente possa diventare una discreta forma di ego-drammatizzazione narrativa). Per effetto di una maggiore attenzione al bon ton e alla destinazione in-group del messaggio, WA pare a me condurre all’interiorizzazione di norme sociali molto più di FB. È un dato che hanno colto i nativi digitali, tutti in fuga da FB. E però, quando leggevano FB erano più informati sul mondo. Male, magari: ma c’era la possibilità di confrontarsi con loro su un argomento del quale avevano una qualche remota cognizione. Nella generazione WA l’interesse per la politica è sceso ai minimi storici. Per questo trovo che il vero problema non sia che WA si affacci malamente dal privato al pubblico ma che conduca al massimo grado la deriva privata della nostra società.
In attesa che le infrastrutture web tornino a essere disegnate secondo le intenzioni delle origini, dunque concepite per la moltiplicazione disinteressata degli scambi, occorrerà che qualche volontario si adoperi in una militanza da whatsapping (qui ne avevo teorizzato un uso per promozione letteraria), e cioè partecipi ai gruppi con l’intento di accenderne l’interesse verso forme di promozione culturale e impegno civico, anche scompaginandone la stretta aspettativa pratico-utilitaristica con la quale erano stati composti.
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