Ma perché il distanziamento sarebbe sociale? Le strategie linguistiche durante il Covid

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Una delle rivoluzioni portate dal Covid ha natura linguistica: le parole e le espressioni più usate sono diventate – e per lo più continuano a essere – alcune che non conoscevamo prima o che avevano un ruolo marginale o inesistente nelle conversazioni e nell’informazione. Non dipende solo dallo stato di eccezione legato all’importanza della malattia e del linguaggio medico: del resto l’unica parola che ha mutato poco la sua presenza, e anzi quasi l’ha ridotta, è “virale”; semmai la malattia è servita a ricordarci che la sua origine è clinica e non ludica o pubblicitaria.

 

Il termine composto più impiegato, e che costituisce in questo periodo l’esatto incrocio tra la medicina e la politica, è distanziamento sociale, in Italia riportato pari pari dal mondo anglosassone che ha coniato social distancing per non confonderlo con social distance. Distanza sociale, infatti, è espressione legata alla sociologia e che fotografa una certa organizzazione classista. Poi, però, sia gli anglosassoni che l’OMS hanno cambiato il tiro, scegliendo distanziamento fisico.

Distanziamento sociale è un capolavoro di imprecisione. Sembra indicare che per difendersi dall’epidemia si debbano prendere le distanze dal prossimo, evitare la cooperazione. Distanziamento fisico, parrebbe quindi un correttivo adeguato: interagite, non interrompete le dinamiche sociali ma fatelo tenendo la debita distanza.

In realtà, però, il “distanziamento fisico” è troppo generico per circoscriversi all’osservazione di una distanza esatta. Manca ogni riferimento alla causa. E se quel che conta è tenersi distanti, pure se è sufficiente un metro e mezzo metterne tre fra sé e il mondo non farà certo male, e se anzi ognuno se ne rimane fra quattro mura l’obiettivo sociale (perché al limite è sociale l’obiettivo e non il distanziamento) viene ancor più felicemente rispettato. Il distanziamento fisico, espresso in questo modo, è dunque la resa incondizionata al dominio ideologico delle compagnie hi-tech, e non a caso è stato progressivamente proposto come un traguardo desiderabile. Pensiamo al remote working: si è diffuso un camuffamento linguistico usando accanto a working il più positivo smart (che senz’altro si può considerare tra le dieci happiness word dell’ultimo decennio) il quale, abbinato a working, individuava sino a tre mesi fa le forme di flessibilità richieste dal lavoratore e non l’esclusiva modalità di prestare servizio da casa. Un simile abbellimento è funzionale alla spinta verso la trasformazione del rapporto di lavoro, prima prospettata come una valida ma temporanea forma di resilienza aziendale e in seguito scoperta quale panacea per il contenimento di una serie di costi indotti o cavallo di Troia nell’ambiente domestico per riorganizzare favorevolmente per l’impresa il tempo di lavoro.

 

Più in generale, istituzionalizzare verbalmente “distanziamento fisico” completa un percorso di sostituzione (tecnologia digitale in luogo di compresenza fisica) che era già ampiamente in corso, segnandolo come evoluzione ineluttabile e socialmente meritevole. È l’ingombro del corpo negli spazi sociali a essere colpevolizzato. Ancora più del distanziamento sociale, il distanziamento fisico rende pubblicamente biasimevoli gli abbracci e le effusioni, o i loro simulacri simbolici.

Sarebbe dunque normale cancellare entrambi gli aggettivi e sostituirli con “di sicurezza”. Non solo. È la stessa parola “distanziamento” che suona stonata. Essa si usa preferibilmente per gli oggetti, per le cose. Non ci si distanzia, per lo più, ma si viene distanziati (tutti i principali dizionari per spiegare il significato della parola la qualificano come atto di distanziare prima che di distanziarsi). Nella scelta di “distanziamento” c’è già un orientamento autoritario e poco propenso a considerare il senso di responsabilità delle persone. Distanza di sicurezza è, in effetti, la formula che lentamente comincia a emergere nell’uso pratico della comunità che si organizza.

Non è solo “distanziamento” l’indizio di una sorgente prefettizia, burocratica e verticistica del linguaggio sfociato dal Covid. Pensiamo anche agli assembramenti: nessun gruppo si aggrega perché qualcuno ha proposto di assembrarsi. L’assembramento è solo qualcosa che si vieta, ed è termine intrinsecamente negativo. L’assembramento non può che sciogliersi, ad esempio quando è formato da curiosi che hanno assistito a un incidente d’auto e costituiscono un ingombro per l’arrivo dei soccorsi. Si dirà che il senso deve essere negativo perché è oggetto di un divieto. Il punto è che l’assembramento poteva essere rappresentato anche solo da due persone riunite occasionalmente all’aperto: si è preferito dunque estendere sino alla ridicolaggine l’impiego della parola piuttosto che disporre, più semplicemente, che le persone non potessero superare tra loro, la distanza di sicurezza. Non è una differenza da poco, perché sul piano psicologico crea una distanza (a proposito!) dall’autorità. Si è perseguita, mediante un gergo obsoleto, la strada dell’intimidazione verbale in luogo della coesione comunitaria.

 

Lo slittamento nel burocratese ha prodotto, d’altronde, vari arretramenti concettuali. Ricordiamo come a un certo punto le limitazioni attenuate qualora gli assembrati fossero di congiunti. In un attimo sono stati cancellati quarant’anni di mutamenti sociali, rimettendo l’esercizio di una libertà all’esistenza di un vincolo formale. Oltre al fatto che congiunti è sganciato dall’uso reale. È un segno di debolezza (e ormai di incultura istituzionale) non scegliere, in una situazione del genere, una formula come “persone sposate, conviventi e parenti stretti”.

E quanti avevano sentito parlare delle RSA prima del Covid? Già disumanizzate di frequente nell’asettica parola “strutture” le case di riposo per anziani hanno subito dentro l’acronimo quest’ulteriore occultamento del vivente.

Nel frattempo, in tutto il mondo, continua a proliferare il gergo militaresco per definire la battaglia contro il virus, il nemico invisibile, che deve essere sconfitto e sterminato (“noi siamo in guerra” aveva esordito Macron nel suo primo discorso alla nazione, e lo stesso motto è risuonato in bocca al sindaco di New York, Andrew Cuomo). Non è una novità nell’ambito delle epidemie, e già Susan Sontag, scrivendo dell’Aids ammoniva. “Nessuno ci sta invadendo. Il corpo non è un campo di battaglia. I malati non sono le vittime né il nemico (…) Per quanto riguarda la metafora militare (…) rendetela a chi fa la guerra”. Il richiamo dell’Aids ci ricorda quanto il linguaggio bellico sia parallelo alla colpevolizzazione del malato, almeno nel quadro delle malattie contagiose (e infatti, con il passare del tempo, i malati sono diventati gente egoista e indisciplinata, risparmiando tale stigma sociale giusto ai novantenni delle case di riposo – che a lungo si è provato, all’inverso, a far passare come vittime della fatalità. Già diversi commentatori, fin dall’inizio, hanno criticato questo approccio, che se forse ha qualche valore per galvanizzare le persone in una malattia individuale, è divisivo e superficiale dinanzi a un’esperienza collettiva.

E soprattutto, segna la rinuncia a inquadrare la malattia nell’ambito di una crisi sistemica (connessa all’ambiente e all’organizzazione sociale) e la rinuncia ad affrontarla su quel piano più complesso, delegando ogni tutela all’ambito farmacologico.

 

Il linguaggio, anche questo è noto, descrive la realtà e al tempo stesso la costruisce: e la sua non-neutralità significa che quando la descrive lo fa in modo ideologico. Come abbiamo constatato, le tre forze da cui scaturisce il linguaggio del Covid sono ispirate dalla tecnologia digitale, dalla burocrazia statale e dall’industria farmaceutica. Questo ovviamente non significa che sia in essere un complotto. È tuttavia una buona fotografia dei poteri che influenzano la circolazione delle idee mediata dal linguaggio, anche quando non ci sia una pandemia a rendere il fenomeno tanto visibile e udibile.

Di |2020-12-15T14:46:06+01:0010 Luglio 2020|Limite di velocità|

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