La frase in cui Draghi dava del dittatore a Erdogan e il risentimento con cui sta replicando il leader turco mettono in luce alcuni profili interessanti dell’offesa e della reazione, che vanno oltre il caso specifico e inducono a considerazioni più generali.
L’inevitabile suggestione letteraria rimanda a I vestiti nuovi dell’imperatore. La significativa variante rispetto al modello è che Il re è nudo, qui, non lo dice il bambino ma una figura che potremmo piuttosto ricondurre al nonno. Draghi- vedremo poi se il logoramento che implica governare una situazione di emergenza intaccherà questa fisionomia- ha assunto nell’immaginario popolare e istituzionale la figura del padre della patria, che però, essendo nella metafora più anziano della patria stessa, è un ideale senile di ruvida saggezza (l’ultimo a rivestire a tutto tondo questo ruolo fu Pertini, dal quale ci saremmo potuti attendere un’uscita analoga se fosse stato vivo). Dovunque la si rigiri, nella vita di tutti i giorni, non stupisce mai che sbotti il nonno: che a ciò lo spinga una disinibizione da declinante rimescolamento sinaptico, o la semplice consapevolezza di non avere più ragioni di carriera per procacciarsi con l’ipocrisia i buoni uffici degli interlocutori. Nel cliché rientra anche il tipo di episodio scatenante: passi finché quello schiaffa in galera gli oppositori o chiude i giornali indipendenti, ma lo sgarbo a zia Ursula proprio non lo doveva fare.
Torniamo all’accostamento con la fiaba di Andersen. La potenza della sua trama nasce dalla circostanza che la scena si svolge lungamente di fronte a un pubblico esclusivo di adulti. “Il re è nudo” è un incidente, nel senso che il bambino è più o meno un imbucato al corteo. Ora, quando si parla di quel che circola sul web, si sottolinea a buon diritto il moltiplicarsi nell’arena pubblica di frescacce e castronerie. E tuttavia, la libera espressività generalizzata si traduce anche nelle franche constatazioni dell’evidenza e del buon senso. Se il sovrano gira nudo, insomma, l’imbarazzo dei cortigiani (o dei dignitari stranieri) diventa insostenibile, visto che c’è una platea di bambini che lo proclama a chiare lettere. E se non sei un suddito dell’imperatore che tiene a conservare la testa sul collo, finisci per fare solo la figura del lacchè a non dire le cose come stanno. Gli adulti ci cascano lo stesso, spiegandolo con la necessità, ai nonni scoccia (anche quando, come ha fatto Draghi, ammettono a loro volta che la necessità c’è, ovvero che di quel re vanesio che gira nudo abbiamo “bisogno”). Benché la questione lì sia più complessa, non è casuale che appena prima il quasi ottuagenario Biden abbia candidamente (si intende, con candore retorico e teatrale) ammesso di ritenere Putin un assassino.
Nelle pieghe del concetto di “trasparenza”, diventato un mantra nell’epoca digitale, rientra il ripudio dell’infingimento diplomatico. Fu questo, in Italia, il trampolino di lancio dei Cinque Stelle, raggiungendo l’apice nei famosi streaming dell’incontro con Bersani, e ora- per lo stesso partito- rappresenta il pesante fardello di cui liberarsi, con piattaforma Rousseau annessa. Le rivelazioni di Assange per quattro quinti si risolvevano nella banale verifica che il mestiere di diplomatico impone di non fornire a tutti le medesime informazioni, ma fu prospettato come una sconvolgente epifania. Il frutto più avvelenato di questa lettura della trasparenza è stata l’adozione, da parte di alcuni leader politici, di un linguaggio politicamente scorretto, proprio con la scusa che parlare brutalmente (limando i discorsi di spessore e profondità) corrisponda a un “dire le cose come stanno” e metta in simbiotica comunione con l’istintiva sincerità del popolo.
Questa è una deriva. E però non si può negare che, oltre certi limiti, il distacco tra la moderazione della realpolitik e il crasso marciume del reale sia una frizione non addebitabile alle torsioni del ventre digitale dei cittadini. La dittatura di Erdogan è uno di quei casi.
Arriviamo, così, alla questione forse più interessante. Una delle costanti riguardo all’offesa, è che dire la verità a qualcuno non sia più offensivo che propinargli delle bugie: ci deve cioè essere una ragione per dire la verità, tant’è vero che non fermiamo le persone brutte per strada rendendo loro noto il nostro negativo giudizio estetico. In questo senso Erdogan potrebbe avere delle ragioni, dalla sua. L’episedio (episodio della sedia) rendeva conseguenziale chiamarlo cafone o sessista o antieuropeo. Dittatore non c’entrava. E tuttavia il vero problema è un altro: perché Erdogan doveva sentirsi offeso nell’essere chiamato dittatore?
Vero, il personaggio è suscettibile. Nel mio libro Offendersi racconto un assurdo incidente diplomatico, nel corso del quale il leader turco si incaponì contro una filastrocca satirica che lo riguardava e che era stata mandata in onda in Germania, al punto da chiedere alla Merkel di cancellare la gag e di rivolgersi alla giustizia tedesca (che gli diede ragione, ma solo in parte, e quindi della filastrocca conservò le strofe che lo qualificavano “vile, coglione e represso”).
Ma, vivaddio, Erdogan ha fatto di tutto per essere un dittatore e ci sta riuscendo. Dal suo punto di vista dovrebbe andarne orgoglioso. Se lo ammettesse apertamente, potrebbe rimpinguare il suo patrimonio (non che se la passi male, eh?) esibendosi in remunerative conferenze in giro per il mondo sul tema della leadership dittatoriale. Pubblicare Anche tu puoi diventare un dittatore, e vendere milioni di copie.
Perché non lo fa? E’ vero che certe parole sono state cassate dalla storia. La terra è piena di razzisti ma una percentuale risibile di essi non si definisce tale, diversamente dalla prima metà del XX secolo. In certi casi dipende dal fatto che l’espressione è stata coniata dagli avversari in senso spregiativo, come ad esempio terrorista (che in verità all’origine, in Gracco Babeuf, era termine rivendicativo, ma poi è stata sempre adottato dai nemici del terrore). Dittatore però avrebbe tutta una sua storia, e persino una dignità, nella filosofia politica che ne giustificherebbe l’uso.
Accade però che nell’età contemporanea- ad eccezione delle teologie islamiche e di qualche società molto arretrata- l’unica legittimazione del potere sia diventata la volontà popolare, direttamente surrogatoria della vecchia volontà divina. E’ per questa via che le elezioni sono diventate un rito indispensabile anche nelle dittature più feroci, nelle quali è palese la loro fraudolenza; e tanto meno conta, la collettività dei cittadini, tanto più viene utilizzata come mucca da mungere per portare latte alle decisioni degli oligarchi o dei dittatori. Affievolitasi come pratica virtuosa, la democrazia è diventata un potente brand, al cui franchising tutti chiedono di essere affiliati.
In piccola parte, questa forma di allargamento e finzione giova talvolta alla tutela minima dei diritti, perché l’esigenza di facciata funge parzialmente da freno nella repressione. Ma per lo più, dilata e rende evanescente il termine e pone le basi per i moderni travagli di questo regime politico (me ne sono ampiamente occupato nel libro Cosa resta della democrazia).
Ecco, dunque, che un capo politico può mandare giù qualsiasi boccone (pure assassino) tranne che dittatore. Maleducato! Dittatore sarà tua sorella, potrebbe sbracatamente rispondere (comincerebbe poi la discussione se sia offensivo non dire dittatrice, o se al contrario sia più rispettoso e neutrale tenere il maschile. Erdogan comunque non coglierebbe questa sfumatura, e come primo impeto sessista declinerebbe al maschile. Ma è discussione accademica perché, ad oggi, i dittatori sono tutti maschi).
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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