L’angoscioso interrogativo sulla possibilità che l’intelligenza artificiale distrugga più posti di lavoro di quelli che si possono creare può essere espresso in varie forme. Una di queste è: le macchine diventeranno più competenti di noi? E’ un’ipotesi che appare plausibile già oggi, viste la superiori capacità di calcolo e di gestione informativa delle nuove tecnologie. Ma per rispondere seriamente è necessario domandarci cosa precisamente intendiamo per competenza. Partiamo dalla più semplice delle definizioni: la competenza è una specializzazione.
Comporta saper fare una cosa in modo migliore di tutti coloro che non possiedono quella specializzazione, dunque della generalità delle persone.
Prima di rapportare le specializzazioni internamente agli uomini, o comparare quelle delle macchine e quelle umane, volgiamoci però a un confronto con gli animali. Rispetto ai quali, in partenza, l’uomo è scadente: egli è infatti l’unico animale non specializzato. La tesi della “incompiutezza umana” si trova già espressa da Platone nel Protagora, dove si legge che “Epimeteo, dopo avere fornito ad ogni specie animale i mezzi per la conservazione della propria razza non si accorse di avere esaurito tutte le sue facoltà per gli animali: a questo punto gli restava solo la razza umana, sprovvista di tutto”. Anche San Tommaso (considerandolo un vantaggio per l’anima) rilevò che l’uomo è privo di quegli strumenti naturali di cui sono forniti i corpi animali e Kant scrisse: “pare che la natura si sia compiaciuta della sua massima economia e di aver commisurato le qualità animali dell’uomo strettamente al bisogno supremo d’un esistenza iniziale, quasi volesse che l’uomo, dall’estremo della barbarie, si conquistasse col proprio lavoro e la più grande abilità la felicità sulla terra, in modo che egli ne avesse tutto il merito e non dovesse rendere grazie che a se stesso”. L’uomo, carente degli istinti animali e delle specializzazione di organi affinatisi con l’evoluzione, come le chele dei granchi o le ali degli uccelli, trae leva proprio da questa condizione di inferiorità per affermare il suo specifico, che è la costruzione di materiali che operino sull’ambiente, insomma della tecnologia. Con la divisione del lavoro, alcuni uomini padroneggeranno al meglio certe tecniche e altri saranno maestri in tecniche differenti. Sono quelle le competenze. Come si vede sbocciano dalla non-specializzazione!
Se inizialmente le competenze concernono il rapporto con l’ambiente naturale, per effetto della propensione umana a trasformare in simbolica la realtà fisica, molto presto le competenze si estendono a ciò che esiste solo nelle società umane e non in natura. Può trattarsi della mediazione di ciò che forse esiste sopra la natura ma viene pensato dagli umani, e quindi della competenza religiosa; della competenza relativa agli strumenti che vengono fabbricati dall’uomo (che comportando una modificazione della materia ha comunque a che fare con la natura); oppure della competenza in attività che un marziano o un cane non sarebbero in grado di decifrare: la competenza legislativa, la competenza dell’arbitro di hockey su pista, la competenza nel gioco degli scacchi, la competenza per massimizzare i benefici economici da una causa di divorzio (un oggetto che ha un senso soltanto sociale, al pari del matrimonio, ed è come quello invisibile), o persino la competenza di giudicare quali siano le competenze, come la filosofia.
Con la rivoluzione industriale le competenze si moltiplicano, perché proliferano gli oggetti e i sistemi simbolici astratti che regolano il loro rapporto con il mondo. Sotto un certo profilo, l’uomo comincia a vivere in un contesto alienato nel quale non solo non produce quasi nulla di quanto usa ma neppure ne ha competenza. E tuttavia proprio quello sgorgare di oggetti determina la nascita di nuove competenze. Tutti coloro che guidano una vettura, senza la minima di come funzioni uno spinterogeno, , grazie alla possibilità di spostamento che ne discende, diventano tuttavia competenti sulle regole di guida, sui percorsi stradali e magari sulle chiese del trecento che il veicolo rende più agevole raggiungere. Quando nascono il cinema, e poi la televisione, pochi sono in grado di avvolgere la pellicola o di infilare le mani dietro il tubo catodico, però in compenso diventano competenti di film francesi o di calcio. Chi si metterebbe a piangere se la lavatrice smettesse di funzionare diventa competente nell’evitare che i tessuti si rovinino per il lavaggio ad alta temperatura, e in definitiva accresce la sua competenza nelle mansioni domestiche. Si può dire che con la rivoluzione industriale l’uomo diventa alienato rispetto ai suoi oggetti (che tecnicamente gli sono oscuri) ma incrementa le sue competenze sociali. Alcune di queste diventano un lavoro, altre “si limitano” a rendere più interessante la sua vita.
La rivoluzione digitale sta ribaltando la prospettiva. Gli oggetti digitali sono di meno ma accorpano più funzioni, incluse alcune che surrogano le competenze sociali. Basta uno smartphone per conoscere il percorso stradale, per effettuare calcoli complicati, per mandare in automatico gli auguri a un amico, per farsi rapidamente un’infarinatura sulle chiese del trecento, per acquistare in Borsa o al supermercato (un’istituzione, quest’ultima, che distrusse diverse competenze tecniche e sociali). Se non ho mai usato un citofono nella mia vita, davvero la più semplice delle competenze, non ho bisogno di apprenderlo perché avverto con un messaggio che sono arrivato sotto il palazzo. Ovviamente, lo smartphone è solo il caso più macroscopico (in attesa che si perfezioni l’Internet delle cose). Con la rivoluzione digitale le persone sono indotte a trascurare quasi ogni forma di competenza che non sia la manutenzione essenziale dell’oggetto digitale e delle sue funzionalità; disincentivate a esplorare competenze sociali, perché gli oggetti digitali paiono rendere ridondante lo sforzo di esercitarle; convinte che la competenza professionale sia una “bolla” che le informazioni trasmesse dagli oggetti digitali hanno provveduto a far esplodere. La verità, insomma, è che già oggi, a uno stadio complessivamente modesto dell’intelligenza artificiale, le competenze sono cadute in disgrazia.
Torniamo, ciononostante, all’interrogativo di partenza sull’esautorazione di quelle che rimangono da parte delle macchie che verranno. E ora domandiamoci di nuovo: in cosa consiste la competenza? In primo luogo: esperienza, informazioni, organizzazione delle informazioni. Bene, è chiaro che messa nuda e cruda in questi termini siamo perdenti nei confronti di una macchina. La sua potenza di calcolo consente sicuramente di risucchiare la nostra esperienza dentro il database informativo che essa è in grado di organizzare con un’efficienza irraggiungibile per un essere umano. Ma siamo certi che la competenza si risolva in questo?
In realtà competente è colui che interpreta i dati, ancor più che organizzarli: vero, la capacità diagnostica di una macchina sembra far coincidere le due cose, tant’è vero che il computer Watson ha una percentuale di esattezza più elevata che quella dei medici quando gli viene sottoposto un fascicolo clinico. La macchina vede meglio e prima la perturbazione, anche fuor di metafora: è una ICT che avverte i contadini quando devono correre a proteggere il raccolto perché è in arrivo una tempesta; oppure “avvisa” la sveglia di suonare prima perché sul percorso che porta al lavoro si sta per formare una coda inattesa. Ma è l’uomo a reagire meglio alla perturbazione e all’imprevisto. Un sistema digitale è in grado di inseguire l’ottimale ma non necessariamente di stabilire quando l’impossibilità di ottenere l’ottimale suggerisca una strada totalmente differente. Un robot adibito alla manutenzione di un giardino non innova, e se qualcuno non l’ha impostato in quel modo non sopperisce alla mancanza di vasi per piante utilizzando allo scopo una lattina che conteneva una zuppa industriale. Quando parliamo di “intelligenza artificiale” ci riferiamo a qualcosa che non va mai oltre l’organizzazione dei dati esistenti, anche se molti di quei dati per noi sono inapprezzabili nella loro complessità. Giustamente è stato detto che la vittoria di Deep Blue sul campione del mondo di scacchi dice molto più sul gioco degli scacchi che sull’intelligenza. Alcuni dati, di contro, sono inaccessibili al robot. Anche se non l’abbiamo mai ascoltata possiamo riconoscere, con buona probabilità di prenderci se siamo competenti, che un’opera è di Massenet anche se non l’abbiamo mai ascoltata, grazie al fatto che conosciamo le altre sue e siamo capaci di riconoscerne il mood in un modo che non è restringibile a dato (Shazam, infatti, non lo sa fare).
Proprio parlando di competenze, si deve aggiungere che esse mettono in gioco ogni forma di intelligenza (l’autorevole Gardner ne enumera sette) e alcune di queste non sembrano alla portata dell’IA, come l’intelligenza emotiva. Una competenza si fonda sulla contestualizzazione in un ambiente che quasi mai è un semplice aggregato di dati e che si fonda sulla compresenza, non del tutto governabile da una macchina, di agenti competitivi e collaborativi.
Come ha ben teorizzato Luciano Floridi, “i sistemi di intelligenza artificiale più efficienti sono quelli che operano internamente a un ambiente che è conformato ai loro limiti”, come nel caso del filo perimetrale che delimita l’area per il tagliaerba, che mai potrebbe ricavarla da altri elementi. Eccoci dunque al nodo delle competenze. La competenza è la capacità, tutta umana, di risolvere problemi che si presentano nell’ambiente dell’uomo, così com’era prima che venisse esercitata la competenza. La competenza delle macchine è la capacità di intervento in un ambiente che viene selezionato e ridotto per consentire alle macchine di intervenire. Il problema delle competenze è tutto qui. Noi stiamo già ora accontentandoci delle soluzioni che l’oggetto digitale è in grado di offrire nel contesto che abbiamo ridisegnato per esso: con gli smartphone abbiamo imparato a comunicare nei limiti in cui l’oggetto rende funzionale la comunicazione, a costo di potare il grado di complessità dell’interazione. Stiamo insomma diligentemente apprendendo a diventare meno competenti così da raggiungere uno stadio in cui la macchina sia più competente di noi.
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