Poche settimane fa uno storico docente della New York University è stato licenziato (così riportano le poche fonti italiane che hanno riportato il caso, tra poco utilizzerò i termini corretti) a causa di una petizione contro di lui da parte di 82 dei 350 studenti del suo corso, indispettiti dall’eccessiva difficoltà delle lezioni e dalla severità dei criteri di valutazione. La prima questione che salta all’occhio è la crescente trasformazione, nelle università private, degli studenti in clienti che se si lamentano hanno sempre ragione, specialmente nei college americani (la retta versata per frequentare il corso di laurea, qui, è di 83.000 dollari annuali). In effetti, sommando la petizione e i commenti successivi, si palesa in modo trasparente l’incredulità di chi spende (meglio: la cui famiglia spende) quelle cifre e si vede negato il diritto di passare gli esami di ammissione. Stiamo parlando di un esame di chimica molecolare, la base di qualsiasi facoltà di medicina e un argomento che con tutta la buona volontà è difficile rendere una passeggiata. Il potere customizzato degli studenti è un tema su cui varrà la pena di tornare. Ma leggendo sino in fondo gli articoli del New York Times dedicati alla vicenda, emerge un altro dettaglio che merita una discussione più generalizzata. Il professore in questione, Maitland Jones, ha 84 anni.
È opportuno che un docente sia ancora titolare di cattedra a 84 anni?
Qui inserisco la precisazione promessa. Jones era titolare di una di quelle cattedre precarie che negli Stati Uniti si assegnano con contratto annuale. In larga maggioranza sono appannaggio di soggetti che per biografia, genere e sesso scontano l’ineguaglianza di accesso e sono lungamente tagliati fuori dalla reale possibilità di diventare titolari di una cattedra stabile (ordinari, o anche associati, se fossero in Italia). Una donna di colore e giovane poteva essere il prototipo di un simile precariato, e quindi lo strapotere nei suoi confronti da parte degli studenti di élite, prima di fungere da riequilibrio di potere fra docenti e studenti, sarebbe stata (a suo danno) la proiezione di uno squilibrio sociale di classe. Ciò detto, Jones (il cui contratto annuale è stato dall’università rescisso dopo il primo semestre: tecnicamente, di questo si tratta) costituiva un’eccezione, evidentemente per quella stessa passione applicata che ne fece un innovatore e precursore nel campo della chimica molecolare e della relativa didattica. Jones tiene molto (per quel che risulta da fonti affidabili e non di consorteria) a che la risoluzione dei problemi prevalga sull’apprendimento puramente mnemonico. E in effetti, le sue contro-osservazioni riguardo la petizione insistono sul fatto che parecchi Gen-Z stentano a comprendere un testo (e non è che ci racconti una novità), e nelle lamentele degli studenti affiora uno schietto fastidio per l’assenza di strade semplificative riconducibili ad oggettivizzazioni da quiz.
Questa inversione di ruoli, per la quale gli studenti sono più passatisti dei professori (anche di uno che ha 84 anni) ci ammonisce a sua volta sul rischio di giudicare quel che accade nelle università secondo stereotipi, peraltro maturati in epoche diverse (per dire: quando rivendicano l’applicazione del trigger warning gli studenti combattono l’autonomia individuale a favore dell’autorità gerarchica, esigendo che si proceda per divieti. Sono precisamente agli antipodi del Sessantotto). È ben possibile che un professore di una certa età, se non ha una formazione radical, possa essere carente nel pesare ragioni di svantaggio sociale che incidano sull’apprendimento, e peraltro le soluzioni di appoggio dovrebbero essere individuate e realizzate dall’istituzione e non dal singolo professore. Ma tra le presunzioni a sfavore possiamo includere anche quella che a un’età più elevata corrisponda, tendenzialmente, una maggiore rigidità? Molte ricerche sulla scuola, in verità (non ne esistono analoghe sulle università, almeno non a mia conoscenza) sembrano mostrare il contrario. Ne cito per tutte una statunitense condotta a Palo Alto, ma su un campione dei più importanti centri educativi americani, da Tara Kini e Anne Podolsky del 2016, che mostra come gli insegnanti giovani con il miglior rendimento siano quelli che lavorano insieme a colleghi anziani…E una sperimentazione del Politecnico di Milano mise in luce una superiore propensione all’innovazione degli ultracinquantenni di area umanistica.
L’argomento dell’età lavorativa viene affrontato tipicamente sotto due profili: quello pubblico della paralisi agli ingressi sul lavoro che determina l’allungamento dell’età pensionistica e quello privatistico-personale (con ricadute pubbliche sulla sanità) di quanta parte della sua vita una persona debba essere ragionevolmente costretta a lavorare. In entrambi le questioni, la vicenda personale o etica viene filtrata attraverso il dato di bilancio “obiettivo”, che è tuttavia il frutto di una scelta politica sulla distribuzione di risorse all’interno del bilancio stesso. Quando ci focalizziamo sull’istruzione universitaria, a queste chiavi di lettura se ne aggiungono altre: la possibilità dei docenti di prolungare la propria carriera accademica, di solito fino a 70 anni, viene considerata un intralcio al rinnovamento del corpo accademico e all’evoluzione delle discipline. L’accelerazione tecnologica renderebbe l’equilibrio ancora più delicato, perché una parte del sapere del didatta anziano viene “bruciata” dalla difficoltà di tenersi al passo con i nuovi strumenti di comunicazione: non solo il pratico utilizzo, che potrebbe essere effettuato da personale complementare, bensì il compito di partorire un unicum didattico coerente e creativo tra l’articolazione del pensiero (i contenuti) e la sua forma, e rinforzato dalla rivisitazione di questo rapporto.
In effetti, io credo che, oltre una certa età (che potrebbero essere i 65 anni, o i 30 di carriera) i docenti universitari non dovrebbero più essere diretti titolari delle materie seguite dagli studenti, e se questo creasse il problema di sostituirli adeguatamente significa che nella trasmissione dei saperi si è perso qualche passaggio. Al tempo stesso, ritengo che le classi di didattica propedeutiche allo svolgimento degli esami per gli studenti dovrebbero essere solo una parte del funzionamento educativo interno alla comunità universitaria. I docenti di grande esperienza e valore, fino a un’età indeterminata se conservano lucidità intellettuale, dovrebbero continuare ad esserne grandi animatori: con il tutoraggio e la formazione dei docenti più giovani; con ruoli di vigilanza e di garanzia, oltre che interni (ma con poteri ridotti) al consiglio di facoltà e di amministrazione; con lo svolgimento di brevi seminari a frequenza obbligatoria su parti estremamente specialistiche dei programmi di esami; con il diritto di continuare a ricevere finanziamenti per le loro ricerche, quando ciò è giustificato dal merito (attuale; se il merito è soltanto il passato di luminare, è sufficiente celebrarlo). In questa mobilità di ruoli, mi piace immaginare che una delle forme di esame universitario consista in una spiegazione impartita a studenti di livello inferiore. Tutto quest’ambaradan costerebbe il suo, naturalmente: ma come dicevo prima il troppo o il poco sono strettamente connessi alla scelta politica che guida le voci di bilancio (sempre, non solo per l’istruzione). Un’università dove, a tutti i livelli di età e con una certa rotazione di ruoli, si insegni a imparare e si impari a insegnare sarebbe un trampolino di lancio per una rifioritura culturale di impronta democratica.
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