Questo articolo riguarda una questione molto seria.
Questo articolo riguarda una questione molto seria 🤡
Questo articolo riguarda una questione molto seria 🥧
Non c’è dubbio che i tre incipit vi predispongano ad aspettative diverse.
Solo nel primo caso dovreste attendervi davvero un argomento serio. Il secondo vi farebbe presumere una celia o una boiata, il terzo indurrebbe il sospetto che vi siate scordati il mio compleanno.
Se fosse l’inizio della sinossi di un articolo inviato a una rivista scientifica è probabile che la vostra credibilità ne risentirebbe.
Se vi state esprimendo su un gruppo informale e giovanile di WA chiudere con il punto fa di voi persone di cui diffidare.
Ma le cose staranno davvero in questo modo? 😕
L’introduzione delle faccine nel linguaggio, essenzialmente nello scriparlato degli scambi della messaggistica, ha da subito attirato commenti divergenti: ai due poli opposti si collocano l’opinione che si tratti di un regresso comunicativo che ci riporta all’immaturità linguistica dei geroglifici e l’opinione che apporre un segnale visivo sia un modo efficace per ridurre i fraintendimenti della comunicazione a distanza e magari arricchirla in termini espressivi.
Certo è che il suo utilizzo deborda ormai dalla confidenza ammiccante in contesti di stretta conoscenza per dilagare nelle relazioni estese, sollevando incertezze interpretative che cominciano a raggiungere le aule di tribunale nel mondo. In Canada, nel 2021, il giudice ha deciso che un contratto agricolo del valore di 60.000 euro poteva dirsi suggellato giacché il venditore aveva risposto con il pollice alzata all’ordinativo del committente. Un influencer che opera nel campo degli investimenti si sta attirando delle grane perché riassumeva le previsioni sull’andamento di un titolo in un siluro, una bomba o un sacco di dollari: e secondo una corte statunitense non è quello il modo di fornire informazioni in una materia così delicata. In crescita è il numero di denunce in cui un emoji viene presentato come prova della molestia, e già nel 2016 un tribunale siciliano individuò nel tipo di emoticon postato su un social la condotta intimidatoria di un mafioso. Nello stesso anno un giudice dell’Alta Corte inglese condì la motivazione della sua sentenza con tante faccine per renderla comprensibile ai minori coinvolti nella vicenda. Se gli emoji inquinassero saremmo già morti: nessuno può stimarlo con esattezza, ma la cifra di dieci miliardi impiegati al giorno è piuttosto credibile.
Prima di provare a capire qualcosa di più sul senso e la natura di tale onda montata, accenno per completezza un minimo di storia. Antesignana delle faccine fu la rivista satirica americana Puck, nientemeno nel 1881, con quattro volti stilizzati. Lo smiley fu opera del grafico Harvey Ball nel 1963. Nel 1982, Scott Fahlman, un informatico di un’università in Pennsylvania, brevettò su una bacheca digitale aperta ai colleghi la composizione di caratteri che conduce a 🙁 e nel 1999 una società di telefonia giapponese creò la prima raccolta di emoji, 176 in tutto. La parola emoji è la crasi di due parole giapponesi che stanno per immagine e scritto. Gli emoticon sono una sottocategoria degli emoji perché concernono solo faccine e non oggetti.
Gli emoij di cui ci si può servire sono quelli resi disponibili dalle tastiere dei dispositivi, tutti passati per l’approvazione dell’Unicode. È questa una storia piuttosto bizzarra: il consorzio Unicode è infatti un organismo no profit, partecipato dalle principali società tecnologiche, nato per svolgere una funzione puramente tecnica, ovvero approvare i caratteri di scrittura a fini di standardizzazione dei software. C’è una bella differenza però nello stabilire se un carattere finnico è ancora in uso o se la S deve seguire una linea grafica piuttosto che un’altra, e invece decidere se un volto torvo o un funghetto marrone sono idonei a veicolare significati e soprattutto se rischiano di offendere qualcuno. Così, alle loro cadenze semestrali, l’Unicode concede il si stampi a un emoticon solo se riprodotto nei sei colori ritenuti sufficientemente rappresentativi di etnie; e siccome le vie dell’incidente politically correct sono infinite, il consorzio ha rallentato assai la quantità di nuove icone. Possiamo considerare gli emoji un linguaggio, al limite capace di autosufficienza? Forse sì, visto che Moby Dick e Pinocchio sono stati tradotti in emoji da un volenteroso drappello di letterati. Ma se aveva ragione il linguista Emile Benveniste ad affermare che noi siamo il nostro linguaggio (cioè non diciamo quello che pensiamo bensì pensiamo quello che siamo in grado di dire, e quel che siamo in grado di dire è contenuto in un linguaggio che ci precede), è chiaro che l’Unicode ha assunto un peso incredibile in modo apparentemente casuale, come se a un tipografo avessero detto visto che ti trovi, occupati pure della censura.
Gli emoij vengono impiegati sostanzialmente secondo quattro funzioni distinte:
- Ridondanza. Si tratta in realtà di una non-funzione, nonostante sia di uso frequente. Tipo chiedere: come sta il gatto? 🐈oppure scrivere che si è passata la giornata in treno e aggiungere l’emoji della locomotiva 🚆 . Uguale se si scrive: sono contento 😃. La ridondanza è per lo più una carenza generazionale, propria dei boomer che non sono avvezzi e vogliono fare i simpatici. Tale categoria di scriventi, del resto, perpetua alcuni simboli particolarmente didascalici (fra cui l’emoticon sganasciante sino alle lacrime🤣 che i millenial e soprattutto i Gen Z considerano con sprezzo: finiscono insomma per fare la figura del panzone stagionato che non rinuncia al giovanilismo del jeans attillato nonostante gli spunti fuori l’ombelico sgraziato).
- Sostituzione. Qui davvero si trapassa nell’ideogramma: invece di usare la parola si adopera l’icona corrispondente. In realtà, nell’uso risulta un caso ben raro se si fa eccezione: a) per le risposte brevi, soprattutto affermative, quale il famoso 👍 al posto di va bene, ok, benissimo: pura economia tendinea; 2) sempre in nome della sintesi, quando un’icona esprime un semplice concetto o una stringata narrazione che richiederebbe in alternativa più parole e il consueto corpo a corpo con il completamento automatico (ad esempio, tre palloni da football per celebrare una rotonda vittoria calcistica).
- Coloritura espressiva. L’emoji funge da tonalità dell’umore e sotteso commento. Progressivamente si è imposto come obbligo sociale in buona parte dei messaggi, specie alcune forme di emoticon: non è tanto la sua presenza che rassicura sulla buona disposizione d’animo di chi ha scritto ma la sua assenza a costituire un indizio di freddezza. Per essere certi di non sbagliarsi alcuni partono con la ripetizione a manetta della medesima icona. Talvolta questa funzione ricalca quella fàtica della classificazione linguistica di Jakobson (nel linguaggio verbale corrispondente a frasi come “mi senti?” o “chiaro?”) : però con gli emoji non è un modo per tenere il contatto ora bensì per preservarlo nella continuità dentro la quale i messaggi fra due persone tendono a compattarsi (gli scambi social regolari, infatti, devono intendersi un’unica comunicazione: significativo che sia sempre più raro il saluto all’inizio e che il messaggio parte con frasi come “hai saputo se…”, pure se l’ultimo contatto risaliva a settimane addietro).
- Didascalia invertita. Nella cultura scritta la didascalia è la frase che spiega l’illustrazione: l’emoij ribalta tale principio, e assume il compito di eliminare l’ambiguità del messaggio testuale o di contestualizzarlo. È l’illustrazione che spiega la frase. Ma il messaggio risulta arricchito, e il contenuto ne viene ridisegnato, quando l’emoij è tutt’altro che tautologico o prevedibile e mostra la parte espressa verbalmente da un’angolazione differente.
Al tirar delle somme, l’emoji dà il meglio sull’ironia: ed è paradossale, perché è diffusa l’idea che il suo scopo più nobile sia proprio nel dissipare il fraintendimento (guarda che sto scherzando oppure guarda la faccina sorridente, sono contento sul serio, non ti sto sfottendo). Tale credenza sopravvive, giacché l’ironia quasi mai riguarda l’interlocutore, ma un terzo o quello stesso che scrive (sì, l’emoji rende al mittente l’autoironia più tollerabile che le parole, con le quali invece regolarmente scivola nel piangersi addosso). Siccome però l’ironia è una struttura discorsiva con più livelli, possiamo sgombrare il campo dall’utopia che l’emoji abbia realmente il pregio di chiarire il testo. Basti dire che da un sondaggio di Slack concernente gli emoij fra colleghi di lavoro il 91% ha lamentato di essere stato frainteso (senza ovviamente che tale riscontro abbia demotivato nessuno a farne uso più parsimonioso). Il semiologo Marcel Danesi, cui si deve la monografia più attenta sull’emoji, insiste molto sulla difficoltà di dare conto del significato in contesti non allineati, e anzi sull’impossibilità di farlo se i background culturali sono diversi.
I segnali stradali rappresentano un caso in cui un’immagine prende efficacemente il posto di un testo per rendere chiaro un messaggio: ma sono rivolti a una generalità di persone (come le pubblicità, che comunque se debbono produrre informazione ricorrono al testo). Nelle comunicazioni duali o di interazione interna a un gruppo determinato è difficile sostenere che mostrare sia più chiaro che dire. Wittgenstein fu tra i primi a usare qualcosa di simile agli emoij in un testo, teorizzando che quattro tratti ben fatti sanno essere più precisi di una sfilza di parole (per esempio se lo scopo è descrivere una sonata di Schubert). Wittgenstein però non avrebbe mai attinto a quel che passava il codice Unicode: nella sua visione le immagini dovevano provenire dal disegno del mittente. Non sono sicuro che il filosofo in quel caso avesse ragione: ma certo anticipava il problema dell’iconizzazione. Nel flusso della comunicazione interpersonale un’immagine standardizzata, che anche fra le stesse persone è già stata esperita più di una volta e – come è normale – con riferimento a situazioni diverse, vede appannarsi sia il carattere informativo che il tono emozionale. La ragione per cui gli emoij continuano a creare fraintendimenti è che il loro numero, e la loro invarianza, sono del tutto inadeguate ad appagare l’infinitudine di aspettative dei destinatari (e anche del medesimo, ripetuto destinatario). Certo, anche le parole sono un numero finito: ma si organizzano in frasi (salvo per quel gioco che è la trascrizione letteraria). Gli emoij no. Al massimo possono esprimere un cumulo.
La ragione per cui sono stati inventati e circolano gli emoji è estremante semplice: essi rientrano in quel fenomeno tecno-sociale contemporaneo che è la produzione di brevità. La merce principale è ormai il tempo: che in sé non sarebbe affatto male, se si prestasse attenzione a come viene reinvestito e se – da buona merce feticizzata – il risparmio di tempo non reificasse le persone e le relazioni. Può darsi che un’immagine sia in grado di rendere certi concetti, o almeno certe emozioni, meglio di una frase. Ma questo non accadrà mai se la ragione per cui si è ricorsi alla faccina è di non perdere minuti per estrarre la sequenza verbale più precisa, più inequivoca, più toccante. Il parziale passaggio di testimone dalla parola all’emoij è nulla più che un’esigenza tecnica, come quando nella Cina antica presero a disegnare, fra i pittogrammi, il sole squadrato invece che rotondo perché la superficie di bambù, diversamente dalla ceramica che l’aveva preceduta, non era favorevole ai tratti curvilinei.
La natura degli emoij è dunque eminentemente pratica, e quasi suscita tenerezza il vano sforzo di attribuire loro qualche trascendenza intellettuale o discendenza atavica. Si possono seriamente equiparare, come ha fatto la linguista Lauren Gowne in The Conversation, i gesti (che per buona parte sono fuori dal nostro controllo) agli emoji (per quanto questi ultimi possano diventare un riflesso condizionato)? E non avevano di meglio da fare al dipartimento di Neuroscienza dell’Università Bicocca che sperimentare scientificamente come il nostro cervello riconosca più velocemente (70 millisecondi) le faccine che le espressioni facciali? Davvero avevamo il dubbio che un’icona possa richiedere al cervello lo stesso sforzo interpretativo di quel territorio multiforme e tellurico che è il viso?
Una brevità va presa per quello che è: va bene quando non è il caso di stare a smenarla (benedetti comunque 5 emoticon se l’alternativa per dire sì, vengo è un prolisso vocale di un minuto e quaranta), lascia intatto l’appetito quando ci si aspettava qualcosa di più articolato. Se si tratta di un accessorio è una questione di misura ed equilibrio: anche io che non l’uso mai (per pudore, non ne faccio per forza un vanto) apprezzo circostanze in cui leggo l’intento di comunicarmi una vicinanza che le parole si imbarazzavano a pronunciare (e peccato, però…). Quanto alla distanza, suscita una certa inquietudine, in termine di alfabetizzazione emotiva, che il 30% dei Gen Z abbia rotto una relazione mediante un emoji (sempre se è vero). Chiariti i limiti, diamo anche onore al merito: uno stato d’animo corrispondente a 🤦♀️ non esisteva con la stessa precisione: in questo senso gli emoij contribuiscono a costituire e auto-percepire stati d’animo e sentimenti secondari, cioè derivati da altri esistenti. La barriera perché tutto questo si evolva è il problema che la serialità iconica si sclerotizza, ma non possiamo escludere che sia un ponte transitorio verso altro. Molti Gen Z (la maggioranza in Medio Oriente e Asia) cominciano a preferire gli sticker, gli adesivi ritagliabili dallo sfondo di qualsiasi fotografia: insomma, non necessariamente soffocati in uno standard.
E pero, fatemi dire…
Fra i caratteri distintivi dell’umanità vi è la tendenza a evitare la ripetizione, privilegiando l’innovazione creativa e ciò che è differente. A uno sguardo più attento, però, fenomeni e comportamenti ricorsivi risultano prepotentemente insediati nei fondamenti delle nostre vite, e non solo perché rimaniamo incatenati ai vincoli della natura. Come le stagioni e le strutture organiche nell’evoluzione, si ripetono anche i cicli storici e quelli economici, i miti e i riti, le rime in poesia, i meme su Internet e le calunnie in politica. Su concetti e comportamenti reiterati si basano l’apprendimento e la persuasione, ma anche la coazione a ripetere e altre manifestazioni disfunzionali. Con brillante sagacia, Remo Bassetti affronta un concetto finora trascurato, scandagliandolo nei vari campi del sapere, fra antropologia, letteratura e cinema, per dipingere un affresco curioso di grande ispirazione. Da Kierkegaard almachine learning, dai barattoli di Warhol ai serial killer, dai déjà vu fino alla routine, questo libro offre un’analisi profonda della variegata fenomenologia della ripetizione nel mondo moderno, sia nelle forme minacciose e patologiche sia in quelle che invece assicurano conforto, godimento e, persino, libertà.
Quanto siamo ripetitivi
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
-
Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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