Dalle etnie ai no vax
La prima e più evidente caratteristica del sistema democratico è che le decisioni vengono assunte secondo maggioranza. Si tratta di un notevole progresso rispetto ad altri sistemi politici, nei quali le decisioni vengono prese da una minoranza, che potrebbe essere ristretta anche a una sola persona. La differenza rispetto alla democrazia è duplice: non solo è decisiva la volontà della maggior parte delle persone, ma non sarebbe esatto che le decisioni vengono prese dalla maggioranza. Ho usato “secondo maggioranza”, perché la maggioranza deve seguire certe procedure deliberative che coinvolgono la minoranza e all’interno delle quali, teoricamente, la maggioranza finale potrebbe formarsi in modo diverso da quella iniziale. La democrazia, però, non può riassumersi solo nel potere della maggioranza. Se essa può costringere la minoranza a fare tutto quello che è stato deciso, sino ai minimi dettagli, si entra in quella che Tocqueville definì tirannia della maggioranza. Per una definizione più completa, quindi, dobbiamo riferirci alla democrazia come un sistema in cui le decisioni vengono prese secondo maggioranza, con il coinvolgimento di tutti i deliberanti e facendo in modo che ogni decisione gravi il meno possibile sulla minoranza che non la condivide, salvo che la sua partecipazione non sia determinante per il risultato che la decisione intende produrre.
In una società complessa che non ricorre alla democrazia diretta, i principi rimangono gli stessi anche se la loro applicazione diventa meno facile e lineare. Da un lato, i processi deliberativi vengono trasferiti a una selezione ristretta di rappresentanti; dall’altro esistono tutta una serie di comunità interne a quella principale, e non per tutte si applicano i criteri che ho appena esposto. Ad esempio si considera tuttora normale che in un’azienda le decisioni vengano prese da una minoranza. Inoltre, per effetto dell’astensionismo, il concetto di maggioranza in una democrazia rappresentativa non ha quasi nulla a che fare con una riproduzione reale della società. Recentemente se ne è accorto anche Salvini che, per attenuare l’ammissione di una netta sconfitta politica alle elezioni amministrative nelle grandi città, ha qualificato l’episodio come il verdetto di una minoranza di una minoranza. Ma quando il suo partito era salito oltre il trenta per cento dei consensi, rivendicava a gran voce di rappresentare la volontà degli italiani, guardandosi bene dal precisare che in realtà rappresentava solo la volontà di uno su dieci.
Possiamo identificare in democrazia quattro diverse categorie di minoranza:
- La minoranza etnica o religiosa
- La minoranza culturale
- La minoranza politica
- La minoranza di occasione
Minoranze etniche o religiose
Sorvoliamo in questa sede sulla fragilità del concetto di razza: la minoranza etnica è quella che viene definita ma soprattutto tende a definirsi tale. In molti paesi il peso della religione è talmente forte da costruire un fattore di separazione del tutto equivalente all’elemento etnico: non mi interessa quindi soffermarsi sulla distinzione tra i due.
Se un omogeneo gruppo etnico-religioso viene inglobato con la forza in una comunità più estesa, usciamo dalla democrazia ed entriamo nell’oppressione. Tuttavia, in una comunità già formata, lasciare la minoranza libera di farsi una comunità per conto suo può generare nuove forme di oppressione: è probabile, infatti, che il territorio sia popolato trasversalmente, e che dentro la nuova comunità di minoranza vi siano membri di altre comunità (anche di quella che forma la maggioranza), che potrebbero essere perseguitati. Solitamente, la soluzione più democratica è quella di assicurare alla minoranza un elevato grado di autonomia. Quando la maggioranza si è storicamente imposta con la violenza a una preesistente comunità autoctona, l’autonomia dovrà approssimarsi all’indipendenza.
Minoranze culturali
La maggior parte delle volte, però, i membri delle minoranze arrivano individualmente dalla loro nazione e non desiderano separarsi dentro il paese in cui sono emigrati, ma al contrario assimilarsi, e i conflitti nascono perché la maggioranza vuole respingerli, o attribuire loro uno status inferiore. Può all’inverso accadere che le minoranze vogliano integrarsi, ma fino a un certo punto: i suoi membri vivono in piccole enclave e sono riluttanti ad abbandonare i propri costumi religiosi o nazionali.
Alcuni di questi aspetti potrebbero apparire ripugnanti dentro la nuova comunità. Come deve comportarsi il paese che li ospita? Ma soprattutto, possiamo usare l’espressione il paese li ospita? Gli ospiti sono di transito, e se un paese si definisce ospitante, nega l’esistenza di una comunità condivisa, e rende la questione delle regole da rispettare una mera questione di polizia e non una negoziazione di cittadinanza.
Alla maggioranza spetta di essere inclusiva, non sbilanciando a carico della minoranza il rapporto tra diritti e doveri; e di rispettare e consentire i costumi della minoranza, ogni volta che non entrano in grave e fragrante contraddizione con i principali valori adottati dalla maggioranza (a volte la tutela di quei valori protegge gli stessi membri di quella minoranza, come le donne che vengono infibulate o maritate contro volontà).
Essere inclusivi non significa cancellare le proprie usanze, per non fare torto alla sensibilità delle minoranze, né liberare lo spazio pubblico dai segni di tutti i costumi e le usanze, che per alcuni corrispondono a forme profonde di identità. L’apertura verso le altrui manifestazioni pubbliche è una forma di rispetto (termine che qui preferirei a quello di tolleranza). Sarà tuttavia legittimo che, nel rispetto del pluralismo, la maggioranza persegua, mediante spinte gentili, un disegno di riduzione della disomogeneità e di accelerazione della convivenza, ad esempio rendendo comune la scuola dell’obbligo. Dentro questi confini, l’adesione pratica (non per forza interiore) ai valori fondamentali espressi dalla maggioranza deve essere accettata dalla minoranza come un requisito per essere parte della comunità.
Qui parliamo di gruppi che, per lo più, vogliono essere riconosciuti quale minoranza. Non sarebbe ovviamente il caso degli afroamericani o degli altri nativi di altri paesi, per i quali l’inclusione dovrebbe consistere nella parificazione pura e semplice. Dove la cittadinanza è sin dall’origine la medesima, le maggioranze e minoranze dovrebbero formarsi secondo criteri trasversali rispetto al colore della pelle. Ma il fallimento, in tante nazioni, del passaggio dalla segregazione all’integrazione ha spinto a considerare le storie nazionali (incluse le fasi pacifiche di assimilazione) come vicende di dominio e oppressione, e ciò orienta una parte degli esclusi verso la rivendicazione di minoranza culturale.
Essere minoranza, in questo caso, non contiene più riferimento alcuno a una determinazione quantitativa (la “minoranza” è anzi spesso maggioranza) ma è, in negativo, la denuncia di una condizione storica di oppressione e, in positivo, la valorizzazione di una cultura (simbolica, linguistica, espressiva) alternativa e antagonistica verso i canoni dominanti: la lotta per il potere, dal punto di vista della minoranza, viene sostituita da questa forma di auto-affermazione e nella pretesa che la maggioranza si ponga dei limiti (simbolici, linguistici, espressivi) di fronte ad essa.
Infine, se in passato la dicotomia maggioranza/minoranza era tracciata lungo linee di frattura piuttosto stabili e facili da individuare, le polarizzazioni oggi si sono diversificate e hanno introdotto la significanza politica del concetto di maggioranza e minoranza (con il conseguente obbligo di proteggere le minoranze dalla tirannia della maggioranza) anche in campi ai quali esso risultava piuttosto indifferente: ad esempio riguardo all’orientamento sessuale.
Minoranza politica
La dialettica politica, nella sua purezza, consiste nel conflitto controllato fra gruppi riguardo alcune idee globali di come dovrebbe funzionare la società. Negli ultimi trent’anni queste visioni allargate (ideologie) sono cadute in disgrazia a favore di un approccio pragmatico ai “problemi reali” (che è per lo più un modo per celare la chiave ideologica dell’approccio). In una democrazia sono rare le militanze popolari minacciate dalla maggioranza. La difesa delle minoranze si è quindi spostata sul piano rappresentativo, e si sostanzia in una sorta di rivendicazione castale: non amo l’abuso demagogico del termine “casta” ma qui lo pronuncio in modo asetticamente descrittivo, riguardante la pretesa dei rappresentanti politici di minoranza di partecipare alla lottizzazione delle cariche, una carcassa dell’ideale democratico.
Una delle formule per misurare la qualità di una democrazia era la presenza mediatica della minoranza sulle emittenti pubbliche: l’importanza di questo dato si è attenuata con la polverizzazione mediatica e le tecnologie digitali, ma non è affatto scomparsa. Tra gli obblighi deontologici di una minoranza, invece, andrebbe sottolineato quello di non “sequestrare” la maggioranza attraverso le procedure, ad esempio inondando di emendamenti le proposte di legge al fine di rallentarne la discussione.
Minoranze d’occasione
Le società sono chiamate, in certe occasioni, a pronunciarsi su questioni prospettate di solito come binarie. L’aborto è legittimo? E la caccia? E fumare nei luoghi pubblici? I referendum sull’aborto o il divorzio hanno segnato una stagione politica, ovviamente. Ma le divisioni rimangono pur sempre d’occasione: anche se presupponiamo che essere contro l’aborto sia compatibile solo con una visione determinata della società (in quanto tale, politica), la maggior parte dei questi temi di taglio referendario non escluderebbe una divisione trasversale. Se questa non si forma è perché la sua “politicizzazione” non si diffonde dalla società alla classe dirigente ma viene utilizzata dalle fazioni politiche per rimediare ai propri deficit di ideologia (ovvero, alla debolezza dei loro progetti di società). Possiamo dire che la politica si è ridotta a una serie di discussione intorno a temi importanti ma isolati (che alcune minoranze selezionate, le fazioni che si dichiarano politiche, cercano di monopolizzare e manipolare). La minoranza che in tali contesti venisse discriminata, tuttavia, non sarebbe mai oggetto di un’oppressione veramente politica. Non sarà infatti tenuta ad adeguarsi a un modello sociale generalizzato ma a conformarsi a un’unica decisione.
Pure la questione ecologica è stata inizialmente una singola questione tematica, addirittura disimpegnante rispetto alla coscienza che cerca di comprendere la società nel suo complesso e immaginarne un progetto differente: e persino ora che siamo arrivati a un livello di gravità assoluta del problema, i partiti politici verdi, salvo poche eccezioni, hanno una certa difficoltà ad elaborare il tema ecologico all’interno di un progetto complessivo di società, che prenda ad esempio seriamente in considerazione le questioni economiche e sociali.
Proprio il caso dell’ecologia ci evidenzia due profili dei processi decisori (e della conseguente formazione di maggioranze e minoranze) su occasioni (temi singoli). La prima è che, rispetto ad alcuni temi d’occasione, quella che risulta la minoranza deve avere la facoltà di organizzarsi per rivedere e al limite cambiare la decisione per il futuro, ma nella vigenza della decisione presa non può sottrarsi all’obbligo di eseguirla, perché il buon esito della decisione presa dalla maggioranza dipende dal fatto che tutti la rispettino e le diano corso. Una decisione riguardante lo smaltimento differenziati dei rifiuti apporta i benefici attesi solo se tutti si comportano in modo da realizzarla, qualunque sia il loro convincimento.
La seconda è che non è possibile, se non in contesti molto piccoli, sottoporre a referendum tutta la vita pubblica (immaginate se ogni provvedimento ecologico dovesse essere sottoposto a referendum). Quasi tutte le decisioni democratiche si formano attraverso procedure normative, e per effetto del meccanismo rappresentativo devono essere considerate come se, dentro la società, si fosse formata una minoranza, che sarà tenuta a rispettare la maggioranza d’occasione.
In alcuni casi non è necessaria, in realtà, una partecipazione attiva: quel che viene imposto alla minoranza è di non impedire alla maggioranza di fare qualcosa (per questo è impensabile che l’obiezione di coscienza dei medici possa giungere a paralizzare intere regioni sull’aborto). Ma chi non vuole abortire non è costretto ad abortire, e dove è consentita la caccia nessuno è obbligato ad andare con il fucile nei boschi. È però una distorsione considerare questa forma di libertà una prova di superiorità morale della decisione. Molte decisioni d’occasione, infatti, non concernono un aumento della libertà ma discutono se una certa libertà non vada tutelata in quanto viola un principio etico (come per la caccia) oppure regolano un conflitto tra libertà che non sono compatibili. Quando si trattò di decidere sul diritto di fumare nei luoghi pubblici, i fumatori lamentavano che mentre i non fumatori volevano limitare la libertà di fumare nei luoghi pubblici loro non imponevano nulla, volevano solo essere lasciati liberi. Si trattava di un’obiezione insulsa, perché i fumatori costringevano i non fumatori ad assorbire il fumo che si librava nell’aria, e quindi, parzialmente, a fumare. Il fatto che i nocivi effetti clinici del fumo gravino, direttamente e indirettamente, sui non fumatori ha imposto altre limitazioni, tra le quali non solo il divieto di campagne pubblicitarie ma addirittura l’obbligo di un’anti-pubblicità sulle sigarette.
Gli argomenti appena esposti sono in parte riproponibili per le minoranze che non intendono vaccinarsi contro la pandemia. La validità o meno degli argomenti scientifici sull’efficacia e la sicurezza del vaccino esprime tutto il suo valore per la decisione, ma una volta che la decisione è presa (giusta o sbagliata che sia, come potrebbe essere qualsiasi decisione) non può costituire uno scudo per sottrarsi al vaccino. Siamo precisamente nel campo delle decisioni che arrecano i benefici attesi – che non necessariamente sono ottimali: non è detto che coincidano con la scomparsa del vaccino, potrebbero essere a lungo “soltanto” un contenimento dei danni – a condizione che tutti i membri della società operino attivamente per consentirne la realizzazione. Così avviene per le tasse, al cui pagamento sono tenuti anche quelli che le considerano troppo alte o filosoficamente ingiustificate. La minoranza che non si uniforma e reclama il diritto di non uniformarsi (una sorta di obiezione d’incoscienza) non rimane minoranza dentro la società, si chiama fuori dalla società. E se non si allontana materialmente dalla comunità (per esempio, scegliendo di andare a vivere in uno di quei paesi il cui dolente problema, all’inverso, è la mancanza di dosi di vaccino), alla comunità non rimane che l’alternativa tra obbligarli o escluderli dalla partecipazione alla vita sociale.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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