Indagine filosofica sulla felicità/2. Il senso vale più dei sensi

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La felicità potrebbe consistere in un bel mal di denti. A condizione che si eserciti il mestiere di dentista e che il mal di denti non sia il proprio ma quello del cliente. E con un terzo presupposto fondamentale: che si aderisca a una visione di felicità coincidente con il piacere; il piacere in questione, nell’ipotesi più biecamente utilitarista, coinciderebbe con il lucro economico ricavato e la possibilità di reinvestirlo in un’occasione di diletto, non necessariamente meschina. Ma potrebbe anche trattarsi del piacere dello scienziato che attraverso la conoscenza plurale della patologie dentarie miri a debellarle per amore dell’umanità o l’aspirazione alla gloria postuma. O, all’estremo opposto, del piacere sadico di godere della sofferenza altrui e sentirla nel proprio dominio.

 

Già quest’esempio rende l’idea di quanto sia problematica la relazione tra piacere e felicità. Per eliminare il corto circuito si potrebbe concludere, sulla scia di Aristotele, che la schiera di piaceri rivolti alla felicità non sia illimitata e che anzi debba unificarsi nella coltivazione delle virtù. Una simile scorciatoia è stata negata da Kant, che chiarì come per mettere ordine tra le cose fosse necessario distinguere tra l’etica e la felicità, e ritenne che la prima dovesse prevalere. Al punto da imporre il “dovere” di essere felici, perché modo meglio tutela dalle tentazioni negative che mettono in periglio l’esercizio dell’etica (rovesciamento totale dunque, poiché Aristotele – appunto facendo leva sulla coincidenza delle due cose – considerava la felicità qualcosa che si coltiva per se stessa e non per altro. Un fine ultimo, insomma, dell’uomo.

 

Da quando la vita privata, per l’essere umano, si è fregiata di un’importanza incomparabile con il ruolo svolto nella vita pubblica, la felicità viene tuttavia egualmente considerata come scopo congruo del proprio agire. L’utilitarismo inglese ha edificato solidamente la costruzione per cui la felicità coincide con l’assenza di dolore e la presenza di piaceri. Lo ha fatto rimodellando ampiamente la filosofia greca, visto che Epicuro – malamente e malignamente frainteso dai suoi contemporanei – già perorava la causa della fuga dal dolore a fronte dei “piaceri del ventre” ed esortava a inseguire una serenità fatta di moderazione. All’inverso, la felicità comunemente intesa nei tempi nostri è quella che Pascal Bruckner bolla come “euforia perpetua” e si contraddistingue per una ininterrotta stimolazione sensoriale e consumistica che spinge l’individuo alla ricerca spasmodica di eccitazioni significative.

 

Le neuroscienze riescono attraverso l’imaging a tracciare i circuiti cerebrali che si attivano con il piacere ma sono impotenti a fotografare la felicità, poiché se essa è indiscutibilmente uno stato mentale altrettanto indiscutibilmente è fatta di uno strato più complesso e non oggettivabile.

La felicità, dunque, si caratterizza perché, per quanto collegata al piacere, va oltre l’attimo in cui il piacere viene goduto, ed è anzi una condizione che trascende il godimento medesimo.

Prima di considerare la felicità un oggetto troppo futile e sfuggente per degnarlo della sue attenzioni, la filosofia – per influenza aristotelica – si è lungamente accreditata quale optimum per aiutare l’uomo a scoprire in quale modo si possa essere felici (o meglio come si possa condurre una vita buona, ed essere felici per conseguenza). E però compito non meno ardimentoso è far capire alle persone quando sono felici anche se non lo sanno, ed è compito che hanno provato a prendere in carico recentemente gli psicologi. In effetti, la felicità presuppone, oltre a uno stato d’animo positivo, un certo grado di consapevolezza almeno potenziale. E’ per questo che è impresa improbabile tarare la felicità a misura d’animale diverso dall’uomo: la felicità si autoalimenta quando è sorretta dall’autoriflessività, che se non deve per forza raggiungere il livello di risposta a una domanda come “dimmi se sei felice”, almeno non ha da indugiare sulla risposta alla domanda “cosa ti rende felice” (per quanto la risposta in questione possa maturare attraverso inciampi ed esperimenti). Prioritaria alla fruttuosa ricerca della felicità è infatti la definizione di un senso che si attribuisce alla propria specifica esistenza. Senza il senso ogni piacere è nulla più che un’iniezione di dopamina e (soprattutto) di serotonina (che, per carità, buttale via, ma sono una banale schiavitù del presente).

Nella storia filosofica dell’idea di felicità il confine più netto di separazione è tra le dottrine che la fanno discendere dalla felice e appagata disinibizione dei desideri e quelle che al contrario ne intravedono il segreto nel ferreo esercizio dell’autocontrollo. Vi è naturalmente una terza strada, quella che la nega puramente e semplicemente e considera piuttosto l’infelicità come costitutiva dell’uomo (antesignana la Medea di Epicuro: “Fra i mortali non esiste un uomo felice; certo se gli arriva la prosperità uno può diventare più fortunato di un altro ma felice mai”. E in effetti termine greco per felicità era “eudaimonia” da eduaimon, buon demonio, insomma era un colpo di culo).

Per non scemare nella terza categoria, che include gli insegnamenti religiosi (i quali tuttavia surrogano la felicità con la beatitudine contemplativa, l’estinzione dell’io o i tempi supplementari ultraterreni), la seconda dottrina, quella dell’autocontrollo, si impegna variamente a distinguere tra piaceri buoni e cattivi, suggerisce la temperanza, preme l’acceleratore sui sentimenti che non sono indotti direttamente dal corpo (concetto certo anacronistico per chi esclude l’esistenza dell’anima e non può che concluderne che ogni piacere, anche quello più astratto, sempre il corpo implicato ci trova), e cerca di picconare gentilmente l’abnorme pathos della felicità con traguardi apparentemente meno perturbanti, ovvero il benessere e la serenità.

La serenità torna a suggerire che la felicità esiga l’accompagnamento allo stato d’animo di una riflessione consapevole, che si acquieta nel bilancio di ciò che si possiede e nel realismo delle aspettative. Anch’essa però trascina con sé due latenti controindicazioni. La prima è che l’accettazione e la continenza possano cancellare la proprietà della felicità e mutarla in una copia sbiadita, in una sostanziale rassegnazione all’esistente (si veda al riguardo, e con riferimento a un preciso disegno ideologico, la prima puntata di questa indagine sulla felicità): tutto troppo distante dall’esuberante e predatorio vitalismo attivo che Nietzsche faceva coincidere con la felicità e dalla teoria di matrice psicologica per la quale la felicità è il passaggio da uno stato pur di benessere di un certo momento a uno stato di benessere più elevato di un momento successivo (e se poi traduciamo la serenità nella lotta al principio di piacere in nome del principio di realtà, andiamo per forza a finire nel nevrotico disagio della civiltà di Freud). La seconda è che il vizio di fare bilanci per lo più determina insoddisfazione, e che le persone hanno smesso di essere felici da quando hanno preso a domandarsi con insistenza se effettivamente lo siano.

Per capire un po’ meglio la struttura della felicità, facciamo un passo indietro e torniamo a spendere una parola sui piaceri: tra le zoppicature che loro si addebitano vi è quella che i piaceri più elettrizzanti corrispondano alle più insidiose mine anti-felicità, per quanto essi cospirano contro quella stabilità da cui essa non potrebbe prescindere. Così, la droga eccita ma distrugge e l’avventura flambé di una notte rischia di disgregare un matrimonio dal quale si traeva solido nutrimento affettivo.

Ma non sarebbe ingravidata del medesimo bacillo la felicità, rispetto alla felicità a venire? Tanto più un’unione amorosa è stata focolare felice tanto più sarà infelice quello dei due per il quale si avvererà il 50% delle possibilità pro capite di ritrovarsi a un certo punto solo senza il coniuge. E lo stesso per un lavoro nel quale ci si è realizzati, e che a un certo punto si è dovuto abbandonare per l’età, e così via.

Ecco qui la differenza tra il piacere più o meno effimero e la felicità quale stato mentale: solo la seconda è in grado di elaborare attraverso la memoria una reviviscenza inebriante del passato. Credo che molti conoscano quel momento mirabile in cui il ricordo nitido di una scena vissuta con un genitore amato non è più solo il dolore di quanto si è perduto ma anche la gioia di averlo vissuto, e non smorfia di desolazione che stende come archetto la corda ma sorriso riconoscente per quel che fu, e mai del tutto smarrisce.

 

Qualche passo avanti possiamo allora azzardarlo. Provvisoriamente: la felicità è la qualità di godere profondamente del legame tra il presente e il passato secondo una continuità di senso che orienta anche le aspettative future.

Non si è infatti veramente felici se non si ci proietta in qualche modo anche nel futuro. Ma se quelle aspettative non si realizzeranno? Frederic Lenoir, che ha scritto un brillantissimo trattato sul tema, avverte giustamente che raggiungere gli obiettivi non è essenziale per iniziare a essere felici perché il percorso conta più dell’obiettivo. Insisterei sul punto che la fedeltà a un senso (che non vuol dire divieto di rinnovarlo nei mezzi) nella composizione della felicità vale più del piacere.

 

Per migliorare questa definizione (e infine raggiungerne una che offra anche una dimensione più nettamente pratica) occorre perlomeno domandarsi: se questo godere profondo fiorisca mediante lo stretto tornaconto egoistico o attenda di essere impollinato anche dalla cura degli altri; se nella categoria dei piaceri uno valga uno, poiché de gustibus non disputandum est; e se sia vana o legittima la pretesa di misurarla, la felicità. E ovviamente meglio articolare se per chi tenga alla felicità rimanga opportuno scansare i desideri o corrervi incontro a braccia aperte. Nelle prossime puntate, però.

Di |2020-09-11T15:17:27+01:008 Novembre 2019|Limite di velocità|

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