Secondo Flaubert il viatico migliore per sentirsi felice consiste nell’essere “egoista, stupido e di buona salute”. Nella sua epoca era largamente condivisa l’idea che l’intelligenza acuta e la sensibilità fine si accordassero meglio con un temperamento malinconico. Si tratta ovviamente di una prospettiva che ribalta l’impostazione per la quale vi sarebbe, se non identificazione, una qualche familiarità tra saggezza e raggiungimento della felicità. Ma anche a non prendere troppo sul serio un pessimismo tanto ferale, il problema dell’imbecille felice, come lo definiva Voltaire, è uno dei più insidiosi nella filosofia della felicità. Per essere chiari: non la certezza che il felice sia un imbecille ma la possibilità che l’imbecille sia felice, e che più precisamente che la felicità di alcuni individui sia indotta da una percezione pesantemente scorretta della realtà.
Quando gli utilitaristi, sulla scia di Bentham, ipotizzarono che lo stato dovesse scegliere di agire nel modo che assicura il massimo grado di felicità al maggior numero di persone, si cominciò a porre il problema se tutti i piaceri, indistintamente e senza una gerarchia, dovessero computarsi allo stesso modo. Una soluzione indistintamente egualitaria, già difficile da mandare giù una nella sfera pubblica (non a caso Stuart Mill potè scrivere che preferiva essere “un Socrate insoddisfatto che un maiale soddisfatto”), può risultare ingrata pure nell’ambito privato. Potremmo considerare parimenti felici la moglie che s’inebria in un leale coppiettolì coppiettolà con il consorte e quella che sorvola sull’estratto della carta di credito del marito, che da 25 anni riporta il pagamento settimanale della superior di un infimo hotel da lei mai frequentato? E anche sullo stesso piano quella che tuttora apparecchia felicemente per il ritorno del coniuge, in realtà folgorato dalla contraerea sopra le spiagge della Normandia?
Frederic Lenoir ritiene che l’esistenza felice non possa che fondarsi sulla verità. In effetti, pare rilevante stabilire se la temperatura emotiva di uno stato mentale sia determinata prioritariamente dall’inganno. La china, tuttavia, è scivolosa: oltre all’inganno dei terzi compiuto a fini malevoli e quello indotto da patologie cliniche esiste pure l’inganno a fin di bene (che potrebbe, in certo casi, essere maggior segno di benevolenza verso l’ingannato che una verità sbattuta in faccia) e l’auto-inganno, che secondo le ultime acquisizioni scientifiche parrebbe anzi costitutivo del nostro collocarci nel mondo. Potremmo forse ripiegare, in luogo della verità, sulla disponibilità di informazioni appropriate, che i soggetti saranno poi liberi di acquisire o trascurare. Ma, a parte il fatto che quasi sempre l’individuo si orienterà verso le informazioni che consolidano i suoi pregiudizi (e quindi sarà quasi sempre condannato all’inganno): fino a che punto dobbiamo estendere l’onere informativo? Dovremmo negare in radice la felicità dei trobriandesi visitati da Malinowski, sfuggendo persino alla loro immaginazione che esistano le sinfonie di Beethoven, i giardini di Ravello e l’aria condizionata?
Il vero (visto che si parla di verità) è che tutti, ed a qualsiasi latitudine, viviamo ignari di aspetti che potrebbero stravolgere la nostra graduatoria di preferenze. Dobbiamo accettare che la felicità non si possa scindere dalla cultura e dall’ambiente cui si appartiene. Una sfida interessante, tuttavia, è quella di non accontentarsi della felicità socialmente determinata, ovvero di quella che è considerata tale dalla maggior parte delle persone del luogo, e spingere la propria curiosità oltre le angustie di ciò che è precostituito. Perché il problema non è solo l’inganno specifico (quello rivolto a me su alcuni dati di fatto collegati alla mia esistenza, senza i quali non sono un individuo autonomo che sceglie); vi è anche un inganno sociale, e mi coinvolge in quanto membro di una comunità che subisce influenze dominanti su quel che è bello desiderare.
E’ questo tutto sommato il punto più interessante: la felicità può nutrirsi di appagamenti futili? Questo primo scorcio di XXI secolo sembra più critico verso il paradigma consolidatosi nel Novecento, per il quale la felicità consiste nell’accumulo consumistico di oggetti. Cioè, la critica novecentesca era anche più radicale, e già attentamente indugiava sulla struttura del desiderio, destinato a spegnersi con il possesso di quanto bramato per essere sostituito da un nuovo desiderio (ed era anche anteriore al Novecento, quest’ammonimento). Ben poco però aveva inciso sull’organizzazione sociale che adesso invece (anche forzatamente, per il mutamento strutturale della condizioni che favorivano il capitalismo) sembra destinata nel breve-medio periodo a una revisione profonda, tale da rendere obsoleta la ricerca ossessiva degli status symbol.
Al di là delle singole realizzazioni dei desideri futili, i fulcri stessi dell’ambizione (la gloria, la ricchezza e il potere) sono mossi da una mancanza interiore, e cioè determinati da una frustrazione.
Quella cui faccio qui riferimento è la frustrazione di desideri che non sono mai veramente sublimati, e condannano il soggetto a una perpetua insoddisfazione, mascherata tutt’al più da un perpetuo stato di eccitazione. Siamo lontani da uno stato d’animo positivo quale il sentimento fusionale di unità e armonia (con l’ambiente, con le persone amate, con una porzione selezionata di altri individui, con il godimento disinteressato della bellezza) che conduce a una felicità autentica e vissuta intensamente.
Riferirsi a questo sentimento di unità aiuta a risolvere l’equivoco della coincidenza tra la soddisfazione egoistica e la felicità. Già Hume e Adam Smith avvertivano (il primo, in verità, in modo più cauto) che emozioni ed azioni non sono attivate solo dallo stretto calcolo personale ma anche da una certa benevolenza verso il prossimo, e in certi casi nell’immedesimazione in costui. E’ tristemente vero che certe distorsioni sociali producono una felicità competitiva, ispirata da una costante comparazione con gli altri e dall’ansia di elevarsi sopra di essi, o di catturarne l’approvazione. Ma è un atteggiamento condannato allo scacco, perché le persone veramente felici sono quelle che godono anche del benessere altrui, e hanno l’intelligenza di capire che è solo favorendo quello miglioreranno l’ambiente nel quale dovranno coltivare l’interesse più strettamente personale. L’autorealizzazione è il compimento del senso che si attribuisce alla propria vita, una volta liberatisi del demone delle frustrazioni: ma è illusorio immaginarla nel chiuso del proprio Io. Vale la pena di ricordare l’interessante graduatoria dello psicologo Michael Argyle sulle condotte che assicurano una maggiore felicità, al cui vertice sarebbero due forme di trascendenza dell’Io che sono la danza e il prendersi cura di altri. Migliorando la definizione di felicità che avevo proposto nella seconda puntata, direi che la felicità è la qualità di autorealizzarsi godendo profondamente del legame tra presente e passato secondo una continuità di senso che orienta le scelte presenti e future, emancipata dalle frustrazioni dell’Io, aperta alla benevolenza e tendente a qualche forma di armonia e unità fusionale.
Non tutti i desideri, pertanto, sono idonei a fondare la felicità. E tuttavia peccano sempre di velleitarismo i quantificatori di felicità, che pretendono di stabilire indici incontrovertibili. Del resto Maupertuis, che fu il primo fondatore di un’aritmetica della felicità, da lui fondata sull’intensità e la durata, ne concluse che a conti (aritmetici) fatti i dolori risultavano sempre maggiori dei piaceri, e non restava che rifugiarsi nella fede in Dio. Bentham propose sette fattori di misurazione della felicità: alla durata e all’intensità aggiunse la purezza (assenza di un dispiacere collegato al piacere), probabilità, vicinanza e fecondità (piacere che genera altro piacere). Un’intuizione non priva di una certa genialità: ma meschinamente ragionieristica nella pretesa di usarli effettivamente come guide dell’azione. E incapace di sottrarsi a quella stessa obiezione che Montesquieu aveva rivolto a Maupertuis: la vita non è fatta solo di momenti e non è legata all’immediatezza del piacere. Esprime una continuità, e la felicità si innesta all’interno di quella continuità, e contribuisce in modo determinante a disegnarla. Vi è un’inclinazione ad essere felici, che in parte è persino determinata geneticamente. E’ semmai una disposizione ad accogliere in modo giusto quei momenti di piacere. Non di rado, insomma, bisogna prima essere felici per saper poi riconoscere la felicità.
La quarta puntata in tempi più sereni
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