Se pensate che la vostra squadra di calcio del cuore ha perso ingiustamente di sicuro vi sbagliate.
Ecco perché.
Le partite di questi mondiali di calcio, anche a causa del livellamento generale, si stanno spesso decidendo ai rigori o negli ultimissimi minuti, e spesso con episodi occasionali o sfortunati. Gli appassionati e i tifosi possono così puntualmente discutere se la vittoria (e la parallela sconfitta)siano state meritate oppure no. Ma ha poi senso questa controversia, applicata al calcio?
Due giovani filosofi, Corrado del Bò e Filippo Santoni De Sio, si sono cimentati con la questione in un libro appena pubblicato da Utet (La partita perfetta. Filosofia del calcio). Il loro obiettivo non è una lettura filosofica complessiva del calcio bensì “presentare, discutere e possibilmente risolvere alcune questioni” che sorgono nelle partite di pallone. Il fulcro del libro è tuttavia l’interrogazione del rapporto tra giustizia e calcio che scinderei in tre filoni: 1) Il risultato di una partita di calcio può essere ingiusto? 2) E, nel caso, sarebbe giusto cercare, con i regolamenti, di renderlo più giusto? 3) Come mai ci sono condotte non vietate dal regolamento, che però se praticate sul campo vengono considerate ingiuste?
Il volume non è monolitico, e lascia spazio ad altre dissertazioni e curiosità. Imperdibile (quasi l’equivalente di una play list) è una raccolta di episodi legati alla restituzione della palla che era stata calciata fuori per consentire di soccorrere un calciatore, alcuni dei quali particolarmente rocamboleschi (tipo quello del pallone che viene restituito al portiere avversario, quello gigioneggia e il centravanti va a pressarlo e segna). O anche il recupero di una bella definizione che Osvaldo Soriano diede del genio calcistico: “creare un nuovo spazio” che prima non esisteva, con un passaggio imprevedibile che in un certo senso cambia la forma del campo. Ecco che il legame con lo spazio fisico crea un collegamento con il genio nelle arti plastiche (non sono però certo che ne sarebbe interiormente pacificato Robert Musil, il quale ne L’uomo senza qualità così si lamentava, riferendosi al 1913: “A quel tempo s’incominciava a parlare di geni del football e del ring, ma nelle cronache dei giornali trovava posto tutt’al più un geniale centravanti o un grande tennista ogni dieci inventori o scrittori. Lo spirito del tempo non si era ancora affermato”).
Il titolo del libro deriva da quella che, secondo la visione del grande giornalista Gianni Brera, sarebbe stata l’unica “partita perfetta”, come tale non censurabile come “ingiusta” nel risultato: la partita che si conclude zero a zero. L’assioma era che a determinare l’andamento di un match calcistico sono sempre degli errori, degli attaccanti che non finalizzano azioni inarrestabili e soprattutto dei difensori, che se gli altri segnano, avranno omesso di contrastarli in maniera appropriata. Giustamente, oppongono Del Bò e Santoni De Sio, la partita perfetta sarebbe quella in cui (fermo restando lo zero a zero) la palla rimane sempre tra i piedi della squadra che ha battuto il calcio d’avvio. E’ un paradosso per avversare la tesi che a determinare il risultato siano per forza errori. Ciononostante le conclusioni cui gli autori giungono (che per esigenze di spazio vado molto a semplificare: in realtà tendono a lasciare aperte più interpretazioni) sono le medesime di Brera. Per il giornalista l’esito di una partita non può mai essere ingiusto perchè per un giocatore che segna ce ne saranno sempre uno o più, fra gli avversari, che non sono stati all’altezza della situazione. Per i due filosofi, la scorrettezza di un risultato non è mai dimostrabile perché troppe sono le sue determinanti per ordinarle razionalmente in opposizione al risultato. In qualche modo il calcio è un’estensione del celebre aforisma dell’allenatore slavo Boskov: “Rigore è quando l’arbitro fischia”.
Per non debordare dalla giustizia però è necessario stare nelle regole. Esistono in fondo tre potenziali modi di considerare ingiusto un risultato di calcio: 1) la squadra che perde gioca meglio di quella che vince; 2) vengono prese decisioni arbitrali inesatte a carico della squadra che perde; 3) i giocatori violano una norma del regolamento e vincono grazie a quella forzatura.
Nel primo caso l’affermazione non è probante perché non coincide con l’obiettivo della partita, che non è giocare meglio bensì segnare un gol in più degli avversari (sorvolando sull’aleatorietà del giocare meglio). La seconda affermazione non è probante perché l’errore arbitrale rientra in quel cumulo di fattori che, dicevamo, sono troppi e intersecati per essere pesati unitariamente in modo inequivocabile: un arbitro che non vede un fallo in area è come un portiere che esce a vuoto sul calcio d’angolo. La terza affermazione è l’unica plausibile. La sconfitta ingiusta sarà dunque quella in cui i giocatori non si sono attenuti al principio dell’antagonismo cooperativo: certo, si gioca per superarsi ma nell’ambito di regole che tutti sono tenuti a rispettare. E si tratta di qualunque regola condivisa, anche se non procedurale. Da qui la passione degli autori per la casistica della palla non restituita alla squadra che l’aveva messa fuori per soccorrere un calciatore. Se la squadra che batte la rimessa laterale la scaglia con successo verso la porta avversaria allora sì che è un successo ingiusto, benché esso comporti solo la violazione di una regola di fair play.
Sul concetto di “sportività”, che per grandi linee coincide con il fair play, molti anni fa scrisse in modo pungente e critico Alessandro Portelli, sostenendo che alla fin fine la sportività è una presa per il sedere. Riguarda il calciatore che salta il portiere o quello che stringe la mano all’avversario che lo ha steso, non a caso (dice Portelli) tutte fasi in cui il gioco è fermo e quindi lo sport è sospeso. Quando lo sport è in movimento altro che sportività: durante il gioco il centravanti passerebbe sul cadavere del portiere pur di segnare (e se ne avrà l’occasione gli darà una bella spintarella durante la mischia in area). E solo una copertura per mascherare la logica spietatamente economica (nel senso di strettamente utilitaristica) del calcio (e in definitiva da un attaccante ci si attende che sia “cinico” e “cattivo”: d’accordo, in senso calcistico, ma potrebbe trattarsi di un lapsus freudiano.
In realtà, fra lo sport tutto (e quindi anche il calcio) e il resto delle attività umana passa una differenza fondamentale: nello sport nulla giustifica la deroga al regolamento per ragioni di forza maggiore. In qualsiasi situazione della vita possiamo dire: lo so, la regola sarebbe un altra ma le circostanze mi hanno imposto (o suggerito) di agire all’opposto. E’ vero che non si spara alle persone ma quello mi era entrato in casa (in Italia ci accingiamo anzi a introdurre un vero e proprio diritto). E’ vero che una società dovrebbe approvare il bilancio in quattro mesi ma guardate che casini che c’erano (e così il codice autorizza il prolungamento a sei). Certo, non si dovrebbe tirare un ceffone al figlio ma aveva una crisi di panico e stava per buttarsi sotto un’auto in corsa. E così via. In alcune attività (quelle artistiche legate alla performance) la regola condivisa è che non si rimanga esageratamente ligi alle regole. Nello sport invece niente. Nessun accadimento, nemmeno un dramma familiare o sociale, giustificherebbe che si autorizzasse un gol segnato con la mano o che si smontassero i pali della porta per impedire agli avversari di segnare. Credo che l’insegnamento principale dello sport offre alla vita sia proprio questo (ed anche il messaggio riassuntivo della sportività): ci sono dei casi in cui, qualunque sia la ragione, le regole non si toccano. Neppure se questo rendesse un avvenimento più “giusto” secondo altri punti di vista.
Solo in questo senso direi che una partita è “giusta” per forza: perché l’ingiustizia, misurata secondo canoni diversi da quelli della pure convenzioni di gioco, concorre al suo essere socialmente giusta. Tanto più le circostanze che inficiano l’andamento lineare della partita si moltiplicano tanto più abbiamo la prova che, resistendo le regole alla pressione della contingenza, lo sport assolve la sua funzione (e, detto di passaggio, è questo l’unico ragionamento valido per dichiarare il doping incompatibile con lo sport).
Attraverso un percorso diverso arrivo, quindi, alle stesse conclusioni degli autori di “Filosofia e calcio”. Quel che semmai mi lascia perplesso è una loro idea di partenza, e cioè che le persone desidererebbero che una partita fosse giusta, e per questo si accapigliano tra fazioni opposte.
In verità, il tipo di catarsi che il calcio produce non è nella risoluzione giusta della partita, o nella sua perfezione. E’ al contrario nella certezza della sua messa in discussione. Non vogliamo essere rassicurati, mediante il calcio, sul fatto che i meriti siano ricompensati dai risultati. Vogliamo essere rassicurati sul fatto che qualche volta la fortuna prevale sul merito, e che quand’anche sul campo della vita fossimo schiacciati potremo almeno aggrapparci al salvagente del “certo che se fosse entrato il tiro…” (che nella vita sarà “certo se quel giorno fosse salita in macchina quando gliel’ho proposto…). Non rincorriamo la giustizia ma la giustificazione. Un po’ come nei grandi romanzi, nei quali il lieto fine rappresenta un eccezione.
Tant’è vero che ci sono voluti quarant’anni dalla sua realizzabilità tecnica per digerire la moviola sul campo. E tant’è vero che l’algoritmo del gioco di Fifa, che potrebbe scientificamente premiare il giocatore con più skill, è stato accortamente studiato per riprodurre il medesimo arbitrio del calcio giocato.
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