“Alle cinque e venti”. Un giorno questa frase potrebbe non avere più senso, e ci si potrebbe persino essere dimenticati che ne aveva posseduto uno. Così come “era alle sei e un quarto” o “fra una settimana”.
Ciascuna delle nostre segnalazioni cronologiche presuppone una temporalità spezzata in fasi più o meno lunghe e più o meno esatte. L’utopia – o la distopia – che le sopprime è il massimo risultato cui potrebbe pervenire la modalità vivente che si appresta a diventare connotante la specie umana. Quella di vivere nel flusso.
Il flusso è lo scorrimento ininterrotto delle attività che compongono l’esistenza individuale. Da questa sintetica definizione ricaviamo che:
- le attività mancano di interruzione;
- non essendoci interruzione di nessuna di esse, le attività si sovrappongono;
- perché non si determini interruzione del mio flusso è necessario che tutti siano immersi nel flusso, altrimenti l’interruzione di uno di loro inciderebbe sulla qualità del mio flusso, ad esempio imponendomi un’attesa collegata alla sua interruzione;
- il sistema sociale incoraggia il flusso e quindi penalizza tutte le condotte che lo mettono in pericolo, perché si ostinano a introdurre pause di tempo e separazioni di attività.
Il flusso è reso possibile dalla tecnologia digitale ma non è l’immersione esclusiva nella tecnologia digitale, bensì la più efficace e compenetrante combinazione di vita online e vita offline. Dal punto di vista dello spazio l’incrocio online/offline crea un ambiente che il filosofo Luciano Floridi ha felicemente denominato infosfera (avevo spiegato e commentato il concetto qui). Esso, analizzato sul piano temporale, coincide per grandi linee con quel che qui definisco come flusso.
A parte alcuni impieghi in ambiti scientifici e informatici, la parola flusso ha assunto rilievo nella psicologia e nella letteratura. Nella prima, Mihaly Csikszentmihalyi l’ha identificata con un momento di eccezionale concentrazione su un obiettivo. Partendo dal presupposto che la mente è in grado di reggere un carico informativo di 126 bit di dati al secondo (una conversazione intasa per un terzo questa capienza, e per questo risulta scarsamente conciliabile con altre occupazioni), il flusso viene indicato come il totale, intenzionale ma incosciente, assorbimento in un’azione che pertanto si accaparra l’intera dote di attenzione. Csikszentmihalyi ha descritto il flow una corrente d’acqua che trascina, nella quale tuttavia il soggetto mantiene una perfetta focalizzazione dell’obiettivo e la sensazione corretta di controllarlo, e trae da ciò un’enorme gratificazione, un rendimento formidabile e uno stato d’animo positivo. L’importanza di questo flusso è stata riconosciuta nella religione, nell’innamoramento, nello sport (nel quale corrisponde alla cosiddetta trance agonistica: più in generale, possiamo in effetti considerarlo uno stato di trance, e per questo è stato accostato a forme di disciplina e spiritualità orientale).
Il flusso esistenziale, quello che sto esaminando, si colloca agli antipodi: esso non persegue una fissazione monopolizzante e occasionale bensì una dispersione totalizzante e continuativa. Il tipo di movimento che richiama non è lo scarto laterale ma lo scorrimento orizzontale. E’ raro che il flusso esistenziale contenga una sola attività da cui ricevere godimento. Il flusso è una cucitura tra un blocco di attività e il piacere si rivolge al flusso in quanto tale. Esso rende concorrente e irrealizzabile l’esperienza del flow alla maniera di Csikszentmihalyi, che può scattare solo vicino al picco di una soglia di attenzione che il vorticare molteplice del flusso esistenziale tiene fuori dalla portata.
Il flusso di coscienza è la tecnica letteraria, condotta ai vertici da James Joyce e Virginia Woolf, che descrive la formazione disordinata dei pensieri nella testa dei personaggi prima che vengano incasellati dall’organizzazione razionale del linguaggio. Con il flusso esistenziale, quello di coscienza condivide la frenesia, quando non il caos; ma è uno stadio transitorio che sfocia verso la stabilità, l’unità e la cristallizzazione nel linguaggio (e nella coscienza). Il flusso esistenziale non è al servizio di nessuno principio ordinatore finale, fluisce per se stesso per l’eccitazione chimico-neuronale che provoca.
La vita biologica è caratterizzata da cicli: il tipo di frequenza e immutabilità dei cicli caratterizza una specie, e in parte ne disegna le peculiarità. Uno dei cicli più significativi è quello stagionale, e l’uomo è l’unico animale che se ne è parzialmente affrancato. Mangiando frutta prodotta fuori stagione nelle serre, riscaldando gli interni sino a indossare una canottiera durante una nevicata e elettrificando le città in modo da rendere socialmente attiva pure la nottata del solstizio d’inverno, l’uomo può simulare una stagione diversa da quella che l’inclinazione dell’asse terrestre gli imporrebbe (che l’affrancamento dell’uomo sia parziale vuol dire che non tutti gli effetti stagionali sono cassabili (si pensi ai tornado) ma anche che l’affrancamento è classista: un senza tetto percepisce la differenza delle stagioni come una tortora o un capriolo, salvo che non ha gli stessi vincoli dell’istinto sui periodi di accoppiamento).
L’uomo però è soggetto a una rigorosa alternanza sonno/veglia – più netta rispetto a quella di un delfino, che dorme solo con metà del cervello o dell’elefante che dorme un paio d’ore al giorno, spesso frammentati in pisolini da dieci secondi di sonno profondo – che costituisce il paradigma di una ripartizione che abbraccia l’essenza delle nostre attività, formate da una fase di azione cui segue una di riposo (il lavoro e il tempo libero, in una società stanziale come in una di cacciatori; ma anche le numerose sotto-pause, per le quali da un compito lavorativo si passa a un altro e all’interno di quel compito da una fase a quella successiva, e così per il tempo personale o per le conversazioni).
Il mutamento delle alternanze nello stato continuo e omologante del flusso non si limita a innovare profondamente l’essere umano sul piano culturale e antropologico ma, a ruota delle modifiche cerebrali che trascina con sé, comporta un rinnovamento di specie.
Kevin Kelly, il cofondatore della rivista Wired, ha incluso la nozione del fluire tra quelle che daranno forma al nostro futuro. Nel libro L’inevitabile, osserva come lo scorrere del tempo ne risulti alterato: nell’era industriale tutto veniva eseguito in blocco, le bollette e le tasse si pagavano lo stesso giorno e i servizi si rinnovavano secondo una cadenza (e, aggiungerei, le tecnologie si fermavano dopo ogni uso specialistico, l’automobile al termine del percorso, la televisione con la sospensione dei programmi). Nell’era digitale ci si attendeva che tutto si risolvesse rapidamente, passando da una gestione di accumulo a una giornaliera. Nell’era della computazione, carichiamo flussi di notifiche e aggiornamenti e ci avviamo a concepire solo quel che funziona in tempo reale. Consideriamo inaccettabile le attese per l’esito di un test scolastico o la ricezione di una notizia e acquistiamo quel che è reperibile in streaming nel momento esatto del bisogno.
Finché erano in vendita oggetti, finiti il consumo contemplava la pausa: tra il desiderio e l’acquisto, tra l’acquisto e il godimento, tra un acquisto e quello successivo. Ma, dice Kelly, ogni bene diventa un servizio e siamo passati da un mondo di oggetti solidi a uno di verbi astratti. Se un tempo c’era la scarpa, adesso ci attende lo “scarpare”: ai nostri piedi calzerà un “processo infinito di reinvenzione delle estensioni dei nostri piedi”, magari con coperture monouso, sandali che si trasformano mentre si cammina, suole che cambiano, oppure pavimenti che fungono da scarpe … nel regno digitale immateriale nulla è statico o fisso, tutto è in divenire”. Di fatto saremo ancor di più tutt’uno con gli applicativi, saremo con loro un medesimo software sottoposto a un costante upgrade.
Kelly è un tecno-ottimista che cerca di ammantare l’ideologia del suo atteggiamento dietro il concetto neutrale di “protopia”, né utopia né distopia ma miglioramento incrementale quasi impercettibile del quotidiano. Il pessimismo o l’ottimismo verso il flusso non rappresentano tanto una diversa previsione fattuale quanto una diversa valutazione del benessere umano. Entrambe le dottrine sono consapevoli della contaminazione che subisce l’umano. Come ha scritto Floridi, l’uomo dell’infosfera è un organo informazionale al pari degli artefatti ingegneristici. Quale produttore di informazioni egli viene sollecitato a rendere sincronizzato il sistema e recitare la sua parte nel flusso, senza farsene ostacolo, ciò che avverrebbe con la pretesa di ripristinare pause e interruzioni. Pare evidente, però, che in tal modo più che fluire è egli stesso fluito, e reificato.
Il flusso non opera ancora pienamente nelle vite di chi è nato nella generazione dei ritmi alternati. Ne fanno senz’altro le spese i lavoratori che soccombono al capitalismo che Jonathan Crary ha chiamato 24/7, quello che promuove il connettivismo e bolla il sonno come inazione, che aborre la biodegulation (il divario tra il funzionamento istantaneo dei mercati deregolati e le intrinseche limitazioni degli esseri umani cui viene richiesto di conformarsi alle loro esigenze), che entra “in contrasto con qualunque struttura preesistente di differenziazione: sacro-profano, carnevalesco-quotidiano, naturale-culturale, meccanico-organico e così via”.
Per farsi un’idea di come sarà la compiuta realizzazione del flusso esistenziale basta sbirciare i ragazzi della Igeneration (di loro ho scritto qui), la loro chiusura dentro gli schermi, la difficoltà di rapportarvisi se non si è disposti con loro a immergersi nel flusso, la loro abitudine – della quale la parola multitasking è ormai una resa insufficiente – di mescolare il gioco, i rapporti e lo studio in un’unità di tempo (che è poi l’unità del flusso), la costernazione con cui accolgono l’invito a un’attività o persino a un conversare che non sia congruo con la compattezza del flusso e che per questo appare loro una brusca, intollerabile interruzione. Molti di loro, che girano con una cuffia che fa da suggello sonoro alla continuità del loro mondo interiore (ne avevo scritto qui), qualificano l’imprevedibile socialità della strada, o le percezioni sensoriali che da questa si sprigionano, come un ulteriore, potenziale inciampo del flusso.
Anche se ingentilito dal concetto di non-linearità (che c’entra fino a un certo punto), il flusso minaccia di essere un veicolo di pesante alienazione dell’Io (è improbabile che nel divenire costante si consolidi un’identità) e una porta di accesso per il controllo e la sorveglianza. Se tutte le forze che aspirano a rendere l’essere umano eterodiretto (che si tratti dello stato in Russia o dalle incarnazioni di potenti moventi commerciali in Occidente) transitano negli spazi privati grazie al flusso, il flusso stesso diventa un’enorme istituzione totale. Il disciplinamento del corpo di cui teorizzava Foucault è preistoria, perché richiedeva il passaggio degli individui all’interno di strutture di coercizione, che il flusso rende inutile, salvo che per tutelare la sicurezza in caso di soggetti esageratamente marginali.
Il flusso non ha un tempo rilevante al di fuori del qui e ora. Perciò ha invece un rilevante, ed esclusivo, tempo deittico, che è il presente. Il flusso allontana rapidamente quel che è trascorso e stabilmente transitorio quel che deve arrivare. Per questo il flusso smaltisce senza difficoltà errori, ripetizioni, bugie. Chi è immerso nel flusso manca della pausa che serve per pianificare o per coltivare la memoria. E’ puerile etichettare le ICT come strumenti di conservazione della memoria. Le ITC sono refrattarie alla selezione, che è il perno su cui poggia la memoria, e preferiscono piallare il passato in nome del presente. Basta constatare la crescente ignoranza della storia. O il dato inconfutabile che di un giornale cartaceo di un secolo fa sia ancora reperibile l’edizione di oltre un secolo fa mentre la prima pagina web, che risale appena al 1993, si è dovuta ricostruire e ricreare perché non esisteva più.
Nel flusso la politica è poco più che una vibrazione. Le posizioni politiche non sono reali contenitori di idee e progetti sociali a lungo termine: sono tipi di mood studiati (molto velocemente ed empiricamente) per alcuni gruppi di flussi. L’unica distinzione che il flusso ammette, in effetti, è una specializzazione per flussi formati per assonanza emotiva delle attività. Dentro la maggior parte dei flussi è prevalente l’intrattenimento (con l’abiura delle attese il problema principale diventa quello di trascorrere il tempo: farlo passare, perderlo, eroderlo). La politica è un format di intrattenimento all’interno del flusso, non troppo dissimile dai video di gattini e delle aggressive volgarità che attirano in rete milioni di visualizzazioni. Non ha quasi più nulla a che vedere con la democrazia.
Sotto il profilo estetico, era inevitabile che il flusso mettesse la parola fine alla parola fine nei testi letterari e nei plot delle arti visive. I sequel, i prequel, il finale aperto, la serialità ininterrotta sono l’infrastruttura culturale del flusso (abilmente estremizzata e parodiata dalla matrioska di finali a scelta dello spettatore nell’episodio di Black Mirror, Bandersnackt).
Chiudiamo, per ora, con questa considerazione. Come se mancasse il finale.
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