Oltre il sensazionalismo dell’istante
La scorsa settimana il calciatore del Chelsea Kurt Zouma ha postato un video in cui fa un mazziatone al suo gatto, colpendolo con manrovesci e pedate, una in particolare simile al rinvio dal fondo. Il trattamento sembra più plastico che crudele: Zouma, filmato dal fratello che insieme a lui si sbraca dalle risate, cerca l’effetto spettacolo. Quel che appare più incredibile non è tanto che si accanisca contro il gatto (benché in termini di empatia extra-specifica tra uomini e felini sia questo l’aspetto più deplorevole) ma che si sia fatto l’idea che le immagini in rete sarebbero risultate divertenti.
Chi di noi vorrebbe per amico un imbecille di tale risma? E un’azienda non lo vorrebbe come sponsorizzato: per giunta nell’imminenza della giornata del gatto. Così Adidas lo ha mollato seduta stante. Giusti commenti indignati si sono riversati sul francese, ed è possibile che su di lui cada la mannaia di un processo penale, dato che i maltrattamenti di animali sono puniti molto severamente in Inghilterra. Nel frattempo, la squadra di calcio lo ha sanzionato e temporaneamente messo fuori rosa. E il club ha perso a sua volta uno sponsor, perché il provvedimento non era scattato con tempismo.
Ma quale relazione sussiste tra il maltrattamento di un gatto e l’idoneità a vestire la maglia di una squadra di calcio? Ovviamente nessuna. Il club può decidere che sia dannoso in termini di efficienza mettere in campo un calciatore che probabilmente sarà fischiato per tutta la partita (almeno per un paio di settimane, o meno, se segna il gol del pareggio) ma non ha più ragioni di punirlo di quelle che avrebbe il padrone di casa che a seguito dell’episodio gli mandasse un ordine di sfratto. Si tratta di quel sistema che ho già chiamato effetto onda, consistente nell’idea che alcuni comportamenti negativi non debbano produrre conseguenze nel campo che sarebbe appropriato ma piuttosto debordino e influenzino l’esistenza tutta.
A Zouma potrebbe essere rimproverato di avere offerto un cattivo modello ai suoi follower: e quindi mi sarei piuttosto atteso un’esclusione da YouTube. Il maggior danno possibile nel tuo lavoro, invece, non è un criterio di giustizia accettabile, in termini di principio. Non che susciti pietà che un pluripagato calciatore salti un paio di partite, e tuttavia se davvero sfortunato è il popolo che ha bisogno di eroi cosa dire del popolo che ha bisogno che i calciatori non siano anti-eroi? In effetti, quel che si muoveva a latere del caso Zouma (il rapporto morboso del pubblico con personaggi pubblici da quattro soldi, la fogna dei contenuti social, l’insensata montagna di denaro immessa nel calcio anche da squadre pesantemente indebitate, la follia degli ingaggi, l’ipocrisia degli sponsor) avrebbe dato agio di ripristinare quell’ormai vecchio arnese che una volta si chiamava critica del sistema. Adesso è troppo complicato. In fondo la totalità dei gatti che sommerge e quasi satura lo spazio mediatico fa cose divertenti ed è ben nutrita (d’altronde la prima difesa di Zouma è consistita nell’assicurare che il suo gatto è ben nutrito).
A Torino si è concluso dopo sei anni (sei anni) il processo contro un uomo che alla macchinetta del caffè aveva baciato una collega di lavoro senza il suo consenso. Il tribunale ha ritenuto che il fatto non costituisca reato, e potrebbe apparire una sentenza innovativa se comparata a recenti pronunce, anche della Cassazione, che titoli-clickbait e relativi estratti semplificati segnalano come “baciare senza consenso, o tentare di farlo, è violenza sessuale” oppure “baciare la moglie senza consenso è violenza sessuale”.
Un bacio compiuto, e non solo tentato, implica o una collaborazione o una violenza, e se si vanno a leggere le sentenze, si constata che la questione è sempre più articolata. Baciare la moglie senza consenso è qualcosa in meno che (così era nel caso esaminato dalla Suprema Corte) serrarle la bocca per impedirle di sottrarsi, il tutto in un quadro che ha giustificato una condanna a due anni per sequestro di persona. In un caso del 2019, il bacio era stato solo tentato, ma preceduto da aggressive avance respinte e seguito da minacce: era la parte di una insistente condotta violenta, chiaramente aggressiva verso la sfera sessuale. Il contesto, al quale sempre si richiama la corte, è sempre determinante: un paio d’anni fa venne condannato un professore che distribuiva non richiesti e non graditi baci sulla guancia ad alunne quattordicenni (e a proposito di effetto appropriato e non di effetto onda, spero non sia più titolare di una cattedra).
Il caso di Torino si è svolto tra un manutentore trentasettenne e una collega trentenne, e non mi pare sia stata segnalata una cornice violenta. Forse è vero quel che ha sostenuto l’imputato, che la donna era consenziente ma si è risentita e vendicata perché lui era sposato e si è subito tirato indietro, o forse no, e quindi lui ha sbagliato valutazione. Quel che mi ha colpito, però (se correttamente riportato) era la giustificazione della richiesta di un anno di carcere da parte del pubblico ministero: lo stato d’animo e il disagio provato dalla donna dimostrano che lei lo ha vissuto come violenza.
Lo psicologo Marshall Rosenberg, il grande propugnatore della comunicazione non violenta, giustamente afferma che non si è mai responsabili dei sentimenti degli altri (se ne può essere lo stimolo ma non la causa). Quel che accade in modo estemporaneo tra persone adulte che già si conoscono (ovviamente non sarebbe lo stesso se accadesse per strada fra sconosciuti) crea una responsabilità nei limiti del prevedibile. Se, dopo avere letto un articolo che la diffama, una persona cade per le scale a causa del nervosismo, a nessuno verrebbe in testa di imputare al diffamatore anche le lesioni (non escluderei che si facesse un pensiero a intentare un’azione civile, secondo una diffusa estensione, poco civile, del concetto di responsabilità). Dovremmo ragionare allo stesso modo anche se la vittima inciampa sui gradini di una propria inquietudine interiore. O almeno limitare i termini della responsabilità: la donna aveva tutto il diritto di offendersi, forse anche quello di tirargli un calcio sulle palle (analoghe considerazioni avevo fatto sul catcalling) e magari quello di pretendere che una sopraggiunta incompatibilità ambientale dovesse gravare su di lui, e non su di lei. Ma qui stiamo parlando di un processo penale. Lasciamo perdere che la condanna di un anno sconti la condizionale, dobbiamo dimenticarlo se ragioniamo sul piano dei principi. Davvero qualcuno deve trascorrere un anno in una cella se ha soppesato male il feeling con una donna, fermandosi però su quel passo incauto? Un’altra cosa passata di moda – del resto rientra anch’essa nella critica del sistema – è ragionare sull’inumanità della pena carceraria, e del fatto che debba essere in qualche modo sostituita e limitata ai casi più gravi. Ancora si ascolta il tema in qualche convegno, spesso tenuto a fianco di un’aula in cui, qualche minuto prima, si è celebrato (ed è in corso da anni) qualche processo assurdo, almeno in termini di rilevanza penale.
Perché metto insieme questi due episodi? Perché penso che l’attenzione alla tutela del corpo della donna, e della sua autodeterminazione, e anche l’obbligo di rendere più vincolante il rispetto degli animali, siano passaggi importantissimi nell’evoluzione del concetto di responsabilità, e quindi dello stadio di civiltà. Beni preziosi che richiedono di essere trattati con cura e non smerciati all’ingrosso, nel brivido superficiale del sensazionalismo spiccio, delle etichette facili e delle punizioni esemplari, senza nessun reale interesse per il sistema sociale e quello di giustizia nel suo complesso.
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