Il 21 febbraio 2022 Putin riunisce al Cremlino il Consiglio di sicurezza. Partecipano tutti i vertici dello stato (alti ministri, presidenti assemblee, servizi segreti, alti gradi militari): 23 uomini e una donna. Tre giorni dopo, il parto di tale riunione è l’invasione dell’Ucraina. Se del meeting possedessimo una foto, la parte più interessante sarebbe nel fuoricampo: un fuoricampo speciale, non nello spazio bensì nel tempo. I 24, infatti, continuano oggi a occupare il medesimo posto nelle istituzioni. Quello che prevedevamo come un terremoto, anche interno, non ha scalfito nessuno di loro.
È un desolante segnale di immobilità, ma se ci volgiamo al terreno di guerra non è questa parola la chiave giusta. Temevamo (prima, quando davamo credito all’ipotesi che i russi avrebbero davvero liquidato la faccenda in pochi giorni, secondo la delirante previsione di Putin) che il conflitto sarebbe durato poco. Speravamo (dopo, quando pareva che con il nostro aiuto gli ucraini stessero controbattendo efficacemente il nemico) che non sarebbe durato poi così tanto. Ma, nonostante si tratti essenzialmente di una terribile guerra di posizione, essa si è evoluta a favore della Russia. Nessuno (neppure un ucraino) lo contesta, per quanto concerne il quadro militare: i russi hanno 400.000 uomini sul territorio, più che all’inizio, ne controllano uno spazio sempre più vasto e si sono impadroniti di città che hanno un certo valore simbolico e qualità di snodi. Gli ucraini sono afflitti da un problema di uomini, non solo numerico, nel senso che i giovani e tutti gli arruolati di secondo giro sono meno motivati e non hanno alcuna formazione; Zelensky progetta di raccogliere fresche risorse precettando gli ucraini che vivono all’estero, se dal caso mediante richiesta di estradizione (che, diciamocelo, anche come mera possibilità suscita una certa impressione). Hanno un problema di munizioni, che agli alleati europei viene complicato risolvere, dato che in Ucraina sono stati consumati in un anno quattro volte le munizioni prodotte da tutta l’Europa e gli Stati Uniti messi insieme e, non a caso, il fornitore attualmente più tempestivo è la Corea del Sud. E dietro l’angolo si affaccia il problema principale, il rallentamento o la sospensione dei basilari aiuti americani, adesso ad opera del Congresso, un domani paralizzabili da Trump la cui rielezione appare ogni giorno meno fantascientifica.
La previsione occidentale più fallace ha riguardato il crollo dell’economia russa. Il Fondo Monetario Internazionale vaticina addirittura una crescita del 2,6% per il 2024. L’effetto delle sanzioni è stato vanificato dall’appoggio di India, Iran e Cina: grazie alla vendita di petrolio all’India al posto dell’Europa la Russia ha appena incassato freschi 37 miliardi; ancor più vanificato in realtà dalla disponibilità commerciale di paesi, che pure hanno condannato l’aggressione e applicato le sanzioni (ad esempio Singapore, che ha escluso solo il petrolio), e da falle sugli scambi, che attraverso il Kazakhistan o persino imprese di Taiwan o della Turchia continuano a funzionare in entrata e in uscita. Sì, la crescita economica, insieme alla svalutazione del rublo, ha spinto in su l’inflazione ma con il recente aumento dei tassi d’interesse non è che la Russia si trovi in un quadro sideralmente distante dalle economie nostrane; sì, a conti fatti le importazioni sono diminuite e arrivano preoccupanti (per i russi) segnali di discesa del prezzo al barile, mentre a compensare la diminuzione dei flussi esportati era stato il suo aumento. Ma, in tutta onestà, non è certo l’economia alla fame che ci aspettavamo dopo avergli persino congelato 300 miliardi di dollari sui conti bancari. E soprattutto, il regime non è vincolato alle aspettative verso i suoi cittadini allo stesso modo in cui lo sono i governi occidentali. Le sue riserve di resilienza psicologica paiono assai più fruttifere di quelle auree.
Non una previsione sbagliata bensì una vera fata morgana si è rilevata l’ipotesi che milioni di russi oppressi aspettassero l’occasione dell’isolamento internazionale (che peraltro in termini globali non si è mai realizzato) per dare una vigorosa spallata all’odiato tiranno. Il modo in cui sono stati liquidati Navalny e Prigozhin, senza reazione pubblica, è eloquente. Si diceva: basterebbe uccidere Putin, o che qualcuno lo uccidesse. Ma ogni volta che ha parlato qualcun altro le sue parole sono state non meno grevi: a confronto di Medvedev, per dire, Putin sembra un gentile hippy fricchettone. Non si muove foglia, e Putin gode di ottima salute. Come tutti quelli riuniti con lui il 21 febbraio 2022.
Tra i commentatori internazionali qualcuno osserva che si vince una guerra quando vengono raggiunti gli obiettivi e soprattutto quando le prospettive geopolitiche del paese sono migliori del momento in cui era entrato in guerra. In questo senso, prosegue il ragionamento, la Russia non sta affatto vincendo. Non si troverà forse opposta a una Nato allargata, che includerà anche le vicine Svezia e Finlandia? Non è dipeso dalla guerra il fatto che i paesi europei stiano aumentando spropositatamente le spese per la difesa, tanto che nel giro di tre anni la media della voce di bilancio salirà al 3%, dall’1,7% che era? Vero. Il problema è che non è affatto meglio neppure per noi. Galleggiava sommersa le necessità di rivedere la difesa europea, sottraendola alla dipendenza dell’ombrello americano (e se fosse rimasta a galleggiare ancora un po’ la delicatezza della questione ce la ricorderebbe oggi Trump). Ma un conto era organizzarla prima e un altro concepirla in un clima da corsa agli armamenti. Il dirottamento delle spese militari ad altre voci della spesa pubblica è stata una conquista (e certo anche un lusso). Io non me la sentirei di gioire per un cambio di direzione tanto imponente.
Quando è scoppiata la guerra, abbiamo deciso di appoggiare l’Ucraina, sia rifornendola di armi sia applicando sanzioni alla Russia. C’erano di sicuro dei punti su cui discutere, ma uno difficile da contestare (benché qualche creativo non manchi mai): sul nostro continente, e ai confini con paesi membri della Nato e dell’Unione, la Russia stava invadendo uno stato libero e sovrano. C’erano una nazione che aggrediva e una aggredita. C’erano buone ragioni per schierarsi a fianco dell’aggredito, come la solidarietà, la difesa di valori, le lezioni storiche sulla passività e la barriera contro le mire espansionistiche di un regime, sufficienti per prevalere su altre meno onorevoli. Chi da subito invocava la priorità della pace non faceva altro che confonderla con la sottomissione dell’Ucraina, i cui abitanti avrebbero dovuto supinamente accettare il loro destino geopolitico.
Trascorsi due anni, però, bisogna anche guardare in faccia la realtà. La vittoria ucraina appare estremamente improbabile (per usare un eufemismo), e allo stato dei fatti quel che rischiamo di trovarci davanti, oltre a un’ulteriore messe di cadaveri, sono la Russia padrona dell’Ucraina e da ciò fortificata e ringalluzzita, i partiti populisti di destra che cavalcano l’onda dei disagi economici aggravati dalla guerra e i nostri valori messi in pericolo da una nuova militarizzazione della società. Quando si proclamava la vicinanza agli ucraini (che hanno in effetti, come rifugiati, beneficiato di un’accoglienza negata ad altri fuggiaschi dall’orrore), trovavo veramente meschino che nello stesso momento si piagnucolasse sui due gradi in meno di riscaldamento negli interni. Qui però non si tratta solo di difendere i nostri privilegi e mettere avanti alla vita degli ucraini le nostre convenienze pratiche (benché queste obiettivamente abbiano subito danni notevoli, a fronte invece dei tornaconti americani). Torna a essere in gioco il futuro, lo stesso che del resto ci ha spinto a non restare inerti. Possiamo archiviare come neutro pendolo della storia il riarmo che, inevitabilmente, sta intraprendendo la Germania? O, pensando a quanto vola nei sondaggi l’AfD, dovremmo essere più inquieti riguardo a quel che verrà, anche rispetto a quel che oggi consideriamo il fronte interno?
Inoltre l’opinione pubblica a sostegno comincia a infiacchirsi: non bisogna guardare sollo alla posizione dei governi: Sanchez non ha mai smentito il sostegno all’infinito della Spagna, ma intanto i cittadini mettono la guerra russo-ucraina al 55simo posto fra i loro problemi. E i polacchi, se gli tocchi il grano, smettono di essere così amichevoli con gli aggrediti. Cosa fare, allora? Piantare baracca e burattini, lasciarla vinta a Putin e abbandonare gli ucraini alla loro sorte? Certo che no. La strada da imboccare è: negoziato. Dite che è una sciocchezza, tanto Putin non lo accetta? Intanto nessuno glielo ha proposto, salvo Erdogan. Meglio: l’unico governo che, all’inizio della guerra, presentò una proposta concreta e articolata in punti fu quello italiano presieduto da Mario Draghi. Per sommi capi: ritiro delle truppe, interposizione di un contingente internazionale di pace, autonomia delle regioni russofone, neutralità dell’Ucraina e sua protezione da parte dell’Europa. Non c’era scritto, ma sottovoce era implicito: la Crimea alla Russia. Forse il momento non si prestava, né da una parte né dall’altra. Discutiamo adesso su cosa ci possa stare dentro di quel contenuto, o cosa si possa aggiungere. È inutile stare a concionare sul revival dell’arte militare, e poi rivelarsi incapaci del realistico compromesso negoziale che è il complemento di qualsiasi stato pronto alla guerra (fosse anche solo difensiva). Di ridicolizzare Putin davanti ai suoi cittadini scordiamocelo: sarebbe stato bello, ma non è andata bene. Di contro, che l’esercito russo si sia rivelato molto più debole del previsto lo sanno loro per primi, e avranno da leccarsi le ferite per un bel po’ con le perdite inflitte all’apparato. Quello è il miglior deterrente. Nemmeno sono sicuro che Putin sia contento che la Russia stia diventando, ogni giorno, che passa, sempre più un vassallo della Cina, e con la guerra in corso quello stato di cose non si può modificare. E ancora: l’economia tiene, ma è nella sostanza un’economia di guerra, di corto respiro. Dite che a Putin non interessa negoziare? A me sembra che questo improvviso rivangare il mancato accordo sulle basi proposte da Erdogan (per colpa di quel cattivone di Johnson!) segnali con una certa evidenza che l’argomento gli sta tornando caro.
In conclusione e parziale riepilogo, negoziare implica diverse cose: in primo luogo prepararsi a mandare giù anche parti dell’accordo che proprio uno avrebbe fatto a meno di; in secondo luogo, evitare di andare col cappello in mano a mendicare nel momento peggiore dell’Ucraina: dunque più che mai adesso dobbiamo assistere con le forniture gli ucraini perché recuperino qualcosa sul terreno. In terzo luogo negoziare ad ampio raggio, pure su quel che può accadere in futuro, disinnescando ad esempio in prevenzione l’ombra del conflitto che la Transnistria attira anche addosso alla Moldavia, e avviando nuovi impegni riguardo gli armamenti, con una certa chiarezza sui controlli reciproci di rispetto degli accordi. In quarto luogo, accettare che la nostra visione dell’accordo debba sì tenere conto dell’Ucraina, ma non a tutti i costi convergere con la loro, e che devono pur farsene una ragione perché durano fino a che ricevono le nostre armi e rinascono nella misura in cui ricevono dei fondi per la ricostruzione. E infine, che una buona proposta di negoziato deve sempre prospettare, per l’antagonista, una grande forbice tra quanto la sua situazione sarebbe migliore siglando un accordo e quanto sarebbe peggiore non siglandolo. Questo implica, da un lato, vincere la ripugnanza (per la mia sensibilità giustificatissima) a riammettere subito la Russia nel consesso commerciale dei rapporti con l’occidente; dall’altro, siccome peggio che congelare le riserve estere e bloccare il sistema swift non riesco a immaginare (forse è un limite mio) lasciare il campo anche ad altre ipotesi, non strettamente economiche. Se la vediamo in questa luce, l’uscita di Macron sulle truppe di terra non è così peregrina come può apparire. Cioè, non è la soluzione giusta: ma sull’alzare l’asticella ci si può lavorare, almeno prospettandolo come scenario. E comunque meglio minacciare oggi che trovarsi (volenti o nolenti) a fare la guerra sul serio dopodomani.
Fra i caratteri distintivi dell’umanità vi è la tendenza a evitare la ripetizione, privilegiando l’innovazione creativa e ciò che è differente. A uno sguardo più attento, però, fenomeni e comportamenti ricorsivi risultano prepotentemente insediati nei fondamenti delle nostre vite, e non solo perché rimaniamo incatenati ai vincoli della natura. Come le stagioni e le strutture organiche nell’evoluzione, si ripetono anche i cicli storici e quelli economici, i miti e i riti, le rime in poesia, i meme su Internet e le calunnie in politica. Su concetti e comportamenti reiterati si basano l’apprendimento e la persuasione, ma anche la coazione a ripetere e altre manifestazioni disfunzionali. Con brillante sagacia, Remo Bassetti affronta un concetto finora trascurato, scandagliandolo nei vari campi del sapere, fra antropologia, letteratura e cinema, per dipingere un affresco curioso di grande ispirazione. Da Kierkegaard almachine learning, dai barattoli di Warhol ai serial killer, dai déjà vu fino alla routine, questo libro offre un’analisi profonda della variegata fenomenologia della ripetizione nel mondo moderno, sia nelle forme minacciose e patologiche sia in quelle che invece assicurano conforto, godimento e, persino, libertà.
Quanto siamo ripetitivi
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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