Il problema del multiculturalismo e le azioni pratiche
Il multiculturalismo è qualcosa di più della pacifica convivenza tra gruppi differenti in una stessa comunità: è il riconoscimento di diritti per il fatto di essere membri di quella specifica comunità, e quindi più precisamente è l’attribuzione di quei diritti alla comunità.
Parola-icona, coniata negli anni settanta in Canada per confrontarsi con la minoranza francofona, è stata ripresa nell’Inghilterra dell’immigrazione dai paesi ex coloniali e rilanciata potentemente di fronte alla migrazione che ha investito i paesi europei. Teoricamente è il paradigma della posizione di accoglienza, e anche del principio che le culture si rinnovano attraverso le reciproche influenze e mescolamento. Il secondo di questi due punti viene trasportato con una certa disinvoltura dalle evidenze storiche che lo corroborano ai casi storici attuali. Le contaminazioni che hanno rimodellato i popoli sono state per lo più quelle che hanno seguito alcune forme di colonizzazione, e specialmente quando il popolo colonizzato aveva dato vita, quanto meno in passato, a una civiltà evoluta; se invece l’incontro consiste nell’arrivo in un altro paese dei diseredati di luoghi lontani è probabile che la contaminazione non superi alcuni aspetti superficiali e commercializzabili (come i costumi alimentari).
Ma la stessa idea che l’accoglienza passi attraverso il multiculturalismo è giunta a uno stadio critico dentro la sinistra (ovviamente dalle destre non viene nemmeno presa in considerazione). Amartya Sen ha scritto che il multiculturalismo si è progressivamente dissolto in una compresenza di “monoculturalismi” e ha impedito l’integrazione. Secondo Sen, tutelando le richieste del gruppo di tutelare le sue tradizioni (l’esempio tipico è il velo), sono stati abbandonati alla mercé di tali tradizioni i membri del gruppo che non le hanno scelte ma in quelle si sono trovati immersi dalla nascita, e subiscono quotidianamente la pressione comunitaria per adeguarvisi e perpetuarle.
Una raccolta ordinata e radicale di questa posizione critica si trova espressa da Cinzia Sciuto, nel suo Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo pubblicato all’inizio dell’anno da Feltrinelli. Nella sua perorazione, Sciuto insiste molto su almeno quattro aspetti.
- I diritti non si dovrebbero mai ricevere in quanto si è membri di un gruppo ma solo in quando individui portatori di valori universali, all’interno dei quali va garantita la loro libertà di scelta.
- La tutela dei costumi, quanto meno quella legata all’integrazione dei migranti attuali, è monopolizzata dal profilo religioso, e questo va a detrimento di tutti gli altri fattori culturali, che dovrebbero avere pari dignità. Siccome però non è possibile concedere esenzioni dal rispetto delle regole comuni in funzione di ogni diversità culturale, la soluzione è far finta che non ci siano e consegnarli alla libera pratica nello spazio privato. Perché si dovrebbe accettare che un sikh non infili il casco quando va in moto (privandolo della possibilità di non togliersi il turbante), obbligando a rispettare le legge invece qualcuno che per altre sue altrettanto rispettabili convinzioni interiori preferirebbe muovere i capelli al vento? Le regole di convivenza dunque devono prescindere dall’adesione alla prospettiva delle singole culture, rispettare l’universalità ed essere le stesse per tutti.
- La compensazione che il laicismo ha da offrire a queste culture di minoranza è la loro mancata sottomissione ai simboli culturali della maggioranza dentro lo spazio pubblico. La differenza che marca il laicismo da chi invita gli immigrati islamici a trarre le conseguenze dal trasferimento in nazioni cattoliche consiste quindi nella propensione a rimuovere tutti i simboli religiosi dallo spazio pubblico (ad esempio il crocifisso). Non perché si debba sollevare lo stato d’animo dei nuovi arrivati, ma perché uno stato laico ha il compito di non influenzare in alcun modo la scelta individuale delle proprie convinzioni (e di trasmettere continuamente l’incentivazione alla scelta).
- L’integrazione dentro un paese può nascere solo dalla potatura delle radici micro-comunitarie dentro lo spazio pubblico. Il modo in cui la Germania ha affrontato il problema turco, ad esempio, è stato fallimentare, perché la tutela dei costumi ha conservato una separazione identitaria e alla lunga ha portato a una ghettizzazione del gruppo dentro l’insieme della comunità.
Nella linearità di questo discorso rimane tuttavia una crepa sulla quale Cinzia Sciuto passa un po’ troppo velocemente e apoditticamente nelle ultime pagine, e cioè la contestazione da lungo tempo mossa (e non dagli integralisti islamici ma da celebratissimi filosofi e intellettuali, anche occidentali) che l’universalismo liberale stesso sia una cultura specifica, legata a contesti storici e geografici. E un progresso solo se si assume una determinata concezione individualistica (oppure un progresso sì, ma parziale e con dei rovesci della medaglia secondo tutti i suoi propugnatori più critici).
Ma non sarebbe questo necessariamente un ostacolo nella richiesta alle altre culture di uniformarsi, quando si trovano sul nostro territorio. Come ho scritto nel mio libro “Cosa resta della democrazia”, “per democrazia non intendiamo più solo un regime astratto ma anche un concetto storico che, nonostante la subalternità alla ragione economico-capitalistica, si è costruito un proprio armamentario ideologico- antropologico che identifica i propri cittadini in maniera singolare. La democrazia ormai non può che essere faziosa: essa per non snaturarsi è costretta a difendere certi suoi caratteri sostanziali e se non lo facesse potrebbe considerare concluso il suo ciclo storico. E difendere vuol dire qualificare come giusti e non negoziabili quei caratteri”. E così come è diventato non negoziabile l’uso della violenza, così devono considerarsi non negoziabili, ad esempio, la dignità e l’autonomia della persona e la parità dei generi.
L’accettazione di questo presupposto per i gruppi che (estranei a questa concezione faziosa della giustizia e aderenti a una concezione faziosa differente) lo subiscono, genera traumi e fratture non facilissimi da ricomporre. Quando si vuole dimostrare la superiorità morale della nostra visione del mondo su quella di un religioso fervente, si ricorre spesso all’affermazione che noi tuteliamo la sua libertà – consentendogli di conservare le sue credenze nel suo foro interiore – mentre lui non vorrebbe tutelare la nostra, imponendoci le sue credenze. Il punto è che tra le sue credenze rientra la convinzione che le nostre credenze nuocciano a lui, poiché attirano l’ira divina. È come se dicessimo a Greta: nessuno ti vieta di fare la tua raccolta differenziata, ma lasciaci buttare la nostra plastica dove cazzo ci pare.
Anche io penso che sia più ragionevole credere nell’interdipendenza dei comportamenti di consumo che delle preghiere: ma se stiamo sulla quantità, la prima credenza ha un palmares ancora troppo breve. Quel che voglio dire è che la vita di molte persone nel mondo è seriamente intrecciata con la religione, e non è una cosa da poco separare in loro l’ambito della devozione da quello interiore. Così, lo stato deve procedere in questo modo solo quando è necessario per salvaguardare quel suo nucleo di cui dicevo, oppure per non scompaginare esageratamente la sua organizzazione. Ma c’è una differenza tra l’esigenza di tutelare la dissidenza di un membro rispetto al suo gruppo e quella di contrastare la sua osservanza al gruppo, in nome di un’eguaglianza di principio con tutti gli altri cittadini. È ovvio che un sikh non può girare con il coltello ma non vedo cosa ci sia di terribile nello spostare l’orario di un’udienza per renderlo compatibile con i precetti religiosi di qualcuno. La filosofa Martha Nussbaum, cui sulla valorizzazione dell’autonomia personale nessuno può impartire lezioni, suggerisce in effetti di procedere mediante piccoli “accomodamenti” quando le legge grava sulla coscienza di un individuo.
Sul noto episodio degli agenti francesi che impedirono a due donne musulmane di usare il burqini in spiaggia, Sciuto critica chi difendeva la libertà sulla base del fatto che con queste barriere sarebbero rimaste a casa invece di mescolarsi con altri: se si ammette il burqini, eccepisce, molte donne che se ne sarebbero liberate per andare al mare subiranno pressioni per indossarlo. Ragiona un po’ alla maniera della deterrenza generale: sanzionare il devoto di oggi per tutelare il dissidente di domani; ma non è un gran risultato per l’autonomia personale. Salvo non ritenere che sia giusto combatterla quando ha uno sbocco religioso: ovvero fare una guerra di religione, proprio ciò che il laicismo proclama di voler scongiurare. Né appare risolutiva la distinzione, sempre più problematica, tra spazio pubblico e privato (tant’è che la costruzione di una moschea viene sovente osteggiata in quanto di disturbo allo spazio pubblico).
Gli esiti della tutela di una comunità religiosa possono essere aberranti: e non solo nella improponibile delega di questioni ai tribunali della sharia. Sciuto giustamente ricorda il clamoroso caso in cui la Corte Suprema canadese considerò ammissibile che la comunità hutterita, una setta fondamentalista, potesse – espellendone un membro – privarlo di tutti i suoi averi, dato che la comunità hutteriana non prevede la proprietà privata, e lasciando la comunità si abbandona tutto ciò che si era costruito nella vita, dalla casa al lavoro.
Dunque il fatto che un individuo non sia ammesso alla proprietà privata dal suo gruppo crea sempre una discriminazione rispetto a coloro che non ne fanno parte, e come tale va bandito? Il filosofo Will Kymlicka, nel suo La cittadinanza multiculturale, ha evidenziato come in tutto il mondo la sopravvivenza delle culture autoctone dipenda in modo significativo dalla protezione delle loro basi territoriali, e i popoli indigeni hanno lottato per mantenere queste terre. Siccome però le stesse sono esposte al grande potere economico e politico della società esterna, il modo di tutela più efficace è l’istituzione di riserve in cui la proprietà sia comune o venga gestita su basi fiduciarie, e non possa essere venduta senza l’assenso dell’intera comunità. La strategia dei coloni europei era di sostituire la proprietà collettiva tradizionale contro la volontà degli indigeni, e per questa via assicurarsela, anche a mezzo di espropriazioni individuali. È vero che l’individuo che sceglie di lasciare la comunità perde una quota del suo: ma nel frattempo ha beneficiato di forme di tutela che il welfare della comunità universale fa quasi sempre fatica ad assicurargli.
Insomma, proprio se vuole mantenersi laico e giusto allo stato non rimane che farsi carico di quello che Sciuto chiama “ingestibile caos” per decidere (la frase “Chi stabilisce quali…”? è la più frequente del libro e ma viene sempre da rispondere: “Noi!”, inteso come stato che si regola secondo i propri criteri di giustizia di stampo universalistico e non relativistico) “quali sono le rivendicazioni meritevoli di diritti speciali e quali no”. Diversamente si esce dal campo dell’integrazione per entrare in quello dell’assimilazione forzata.
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