La settimana scorsa sono salito insieme ai miei amici sul treno da Roma a Foggia e siccome i nostri genitori sono dei pezzenti arricchiti ce lo hanno pagato in business class. Vicino a me c’era seduto un tipo vestito in giacca e pantaloni come metà dello scompartimento, solo un po’ più costoso: giacca di marca, pantaloni di lino da sartoria che saranno costati un po’ di testoni, e uno di quegli orologi d’oro che se ci entri nei quartieri ti portano via pure il braccio, anche perché ci si pagano sei anni di viveri. Però si coglieva la sua appartenenza all’epoca dello smartphone: non aveva la bussola né mappe cittadine né la torcia né la mazzetta di posta ritirata dalla buca prima di uscire.
Avrei fatto conversazione ma si capiva che non aveva voglia: in modo intimidatorio ha tirato fuori il Financial Times, avete presente quello che lo spazio può bastare come carta da parati per un intero albergo, e quindi quando si girano le pagine fa un sacco di casino. Siccome mi disturbava mi sono messo in cuffia, ad ascoltare la sonata per viola op. 25 di Hindemith nella versione di Gerard Caussé. Nel pieno del terzo movimento, come noto a tutti l’unico non a struttura ternaria, mi è parso che il tizio mi parlasse e mi sono tolto la cuffia. Invece aveva l’auricolare e parlava al telefono: “Come sta Oceano?”. Mi sono incuriosito, pensando che fosse nel giro degli ambientalisti, poi origliando ho capito che era il nome del nipote, doveva trattarsi di una di quelle famiglie che trovano volgare che uno si faccia un tatuaggio e finissimo chiamare il figlio Dio.
In quel momento è passato il controllore e il tizio si è lamentato che il treno non fermasse né a Ginevra Villereuse né a Torino Crocetta, e ha chiesto se davvero in business si stava comunque insieme ad altra gente; poi ha tirato fuori un libro in francese ma come ha inforcato gli occhiali per leggerlo, mi pare al contrario, ha cominciato a russare come un trattore e mi è toccato infilarmi di nuovo le cuffie. Intanto ho sbirciato la pagina sulla quale era caduto: in alto c’era scritto “Sodome et Gomorrhe”. Quel tizio mi faceva un po’ pena, mi sono girato e ho commentato sottovoce con i miei amici. Secondo me è che non scopa da una decina d’anni, ha risposto solo uno di loro, proviamo a dargli qualche dritta su come rimorchiare. E così abbiamo cominciato a dire ad alta voce che in spiaggia si beccava a vagonate. Secondo me adesso lui faceva finta di dormicchiare. Mi è arrivata una notifica dal sito di Di Marzio, forse la Roma riesce a scaricare Belotti: la trasmetto agli altri, e suscito un’ondata di entusiasmo. Lui si scuote di brutto, credo che non gli è garbato il cambio di argomento. Ha preso la penna e ha cominciato a scrivere con furia, interrompendosi solo per scrutarci di tanto in tanto. Ho confabulato con l’amico dietro: probabilmente è uno che fa i ritratti, tipo a Montmartre, ho ipotizzato. Il mio amico ha obiettato che secondo lui era un filosofo o qualcosa di genere, lo aveva afferrato l’idea giusta, e domani, su qualche giornale, sarebbe apparso un suo articolo sul rapporto tra il pragmatismo e l’intelligenza artificiale, o magari qualcosa di più attuale, forse un pezzo umanista sui senzatetto di San Francisco.
Comunque non era simpatico. Quando è sceso manco ha salutato. Mi sono rivolto ai miei amici e ho commentato: non pensavo che avrei ancora adoperato il personaggio di Massimiliano I d’Asburgo per paragonarlo a qualcuno incontrato oggi in treno. Cosa ti ha indotto a cotale comparazione, chiese uno dei miei amici, esprimendosi nell’idioma per noi più abituale una volta lontani da orecchie indiscrete. E aggiunse: però sarebbe un accostamento lusinghiero. A cosa ti riferisci dunque, in senso critico? Al fatto che Massimiliano si sia fatto sconfiggere pure dagli svizzeri, che fu un mago del matrimonio giusto, che creò il corpo dei lanzichenecchi, che Machiavelli nel Principe lasciasse intendere che lo schifava? No. Al fatto che neppure lui aveva mai preso un treno.
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