Dopo tre mesi, la prima certezza che abbiamo raggiunto sul Covid è socratica: sappiamo di non sapere. E il brutto è che non siamo genericamente noi a non sapere. Non sanno neppure gli scienziati. La salvezza di certo arriverà dalla scienza, ma intanto anche loro si trovano a formulare mere ipotesi su una malattia che di sé ha ancora rivelato pochino. Rimane comunque fermo che il parere di uno scienziato continui a valere di più di quello dell’uomo comune, almeno sulla malattia in senso stretto (non per forza sulle sue conseguenze sociali), ma ciascuno sceglie il suo, perché per il momento dicono tutti una cosa diversa. Nel dubbio, e temporaneamente, meglio l’Organizzazione Mondiale della Sanità che il singolo virologo. Meglio il virologo che ha già credenziali importanti di quello senza titoli. Meglio il virologo che resiste alla seduzione del microfono e lavora duramente di quello che passa il tempo in televisione. Meglio degli altri il virologo che ha ottenuto risultati sul campo, come Crisanti: ha salvato il Veneto e stranamente non è incluso nemmeno tra i 1500 esperti delle task force di governo. Forse, nell’insieme, sin qui meglio diversi virologi stranieri dei nostri. S’insinua il dubbio che valga un detto che di solito si riserva alla classe politica: ciascun paese ha i virologi che si merita.
Forse alcune relative certezze le possediamo riguardo al lockdown.
Sarebbe assurdo disconoscere che il lockdown ha salvato, e salva, delle vite; e i paesi che sono stati più solerti ad applicarlo ne hanno salvate di più e si sono più rapidamente riavvicinati a uno stadio di normalità (ad esempio Taiwan e Nuova Zelanda). A lungo è la circolata la bufala che il numero di morti sia pari se non inferiore e quello degli altri anni: in alcuni luoghi del mondo è stata vicina a raddoppiarsi, e questo tenendo le persone a distanza. Non sappiamo, questo è vero, quale sia la reale contagiosità del virus (anche perché non sappiamo quanti sono i contagiati). Quasi tutti i focolai sono probabilmente partiti da grandi raduni pubblici (partita di calcio in Lombardia, rito religioso di massa in Corea, grande riunione cittadina a Wuhan, e così molti altri esempi). Una persona ne contagia una, in Germania adesso con restrizioni limitate e in Italia in pieno lockdown: ma quante ne ha viste, e a che distanza si era posta da quella contagiata? Non lo sappiamo (e trattandosi di una media lo sappiamo ancora meno).
Esistono tuttavia delle evidenze.
- Il lockdown non serve a combattere il virus ma a ritardarne la diffusione ed evitare la pressione sui sistemi sanitari. Quando il lockdown finisce il contagio riparte. Solo se si fossero raggiunti zero contagiati e si tenessero chiuse le frontiere – anche alle merci imballate – fino a che non sono scomparsi tutti i casi da tutto il mondo il lockdown vincerebbe sul virus. Salvo che il virus non si riformi comunque (che non è affatto escluso).
- Per essere allentato, il lockdown dovrebbe attendere che sia superato il picco. Ma sin qui, nel mondo, dopo gli allentamenti delle misure si è verificato una nuova ascesa, e non si registra – nel tempo di ripartenza del contagio – alcuna relazione con la durata del lockdown.
- Il lockdown ogni giorno non solo salva delle vite ma provoca dei morti. Si tratta delle persone che non hanno potuto continuare le terapie o sottoporsi a prevenzione, delle persone mentalmente disagiate i cui squilibri sono stati accentuati dal lockdown e, in numero maggiore, delle persone che finiranno in miseria per la perdita del posto di lavoro o il fallimento della propria attività. Trovo incredibile che anche intellettuali di spessore continuino a parlare della necessità di mettere la salute davanti al denaro, come se lo spettro della disoccupazione o della miseria equivalesse all’inquietudine per la distribuzione dei dividendi. Sono vite perse anche quelle, pure se si noteranno meno emotivamente e mediaticamente, perché saranno distribuite nel tempo e non avranno formalmente la medesima causa.
- Il lockdown è dunque una linea di confine e di bilanciamento tra le fasi di collasso sanitario e le fasi di una vita sociale riorganizzata dentro una nuova cornice di sicurezza (la normalità, in questo momento, non è ancora un’opzione). Una vita sociale riorganizzata in relativa sicurezza non è una vita senza contagiati (sarà impossibile) ma una vita in cui la curva dei contagi non superi di troppo quella attuale (è sciocco dunque stupirsi perché in Germania sono aumentati i contagi): per realizzarla – da parte degli stati – servono sicuramente il rinforzo dell’accoglienza sanitaria, una strategia calibrata di cure domiciliari, una quantità smisurata di tamponi, forme di tracciamento dei contagiati e tempestivo isolamento dei contagiati stessi oltre che, nelle fasi critiche, di soggetti nettamente più vulnerabili (i test sierologici invece sembrerebbero di limitata o nulla utilità, fino a che non si è certi del tempo di immunità che il malato contrae dopo la guarigione); e da parte della popolazione il rispetto di ragionevoli forme di distanziamento sociale, che lo stato avrà avuto cura in parte di dettagliare. Il collante che spinge i cittadini alla responsabilità è l’esistenza di un piano ordinato e trasparente rispetto a questi elementi.
Cosa rincresce maggiormente nella situazione italiana? Che di questo piano non vi sia traccia: nella peggiore delle ipotesi non esiste; nella migliore non è trasparente e dunque non è soggetto alla valutazione critica dei cittadini e dei loro rappresentanti. Se è vero che tutti i paesi, anche i più riluttanti, sono stati costretti a seguire la linea di chiusura dell’Italia, è anche vero che la stanno oltrepassando più velocemente di noi. Quasi tutti hanno riaperto parzialmente e hanno un piano di riaperture complessivo anticipato rispetto all’Italia; e quasi tutti hanno messo in moto tutte e alcune delle pratiche di contrasto che ho indicato sopra (e che corrispondono per grandi linee ai sei criteri indicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità) o indicato la data da cui funzioneranno a pieno regime.
Il risultato è che l’Italia, che ha ridotto i movimenti per lavoro del 62% (nessun altro paese supera il 50%) e del 95% delle attività all’aperto, è ciononostante al terzo posto per numero di morti e ha una curva piuttosto stazionaria nonostante il lockdown (la Spagna che pareva destinata a sfracellarsi ed è partita 15 giorni dopo, ha ora un numero quotidiano inferiore di morti). Addirittura, l’Italia “riparte” (più o meno) il 4 maggio con un numero di contagiati leggermente superiore al numero di contagiati di quando aveva chiuso. Ed è anche lecito domandarci (come fa il virologo Crisanti e come suggeriva il “modello” cinese) perché non sia stata adottata una riapertura geograficamente differenziata, dando la possibilità di testare l’efficacia dei test e degli isolamenti (se verranno fatti) su zone meno drammaticamente sensibili a una nuova impennata.
Ecco dunque che, in assenza di pianificazione sulle rilevazioni e le cure, tutto il peso della riapertura viene spostato sulla responsabilità dei cittadini e sul rispetto delle norme di distanziamento (che alcune regioni inaspriscono a volte in modo irrazionale).
In conclusione, discutere “se” riaprire è una follia; discutere “quando” è molto importante. Ma se le speranze si fondano, oltre che sul lontano vaccino, solo sull’organizzazione del distanziamento, è normale che i commercianti si arrabbino e si chiedano perché non possano lavorare da subito con le regole che si applicheranno più in là. La giustificazione dovrebbe essere: “perché a partire da quella data noi faremo…”. Ecco la risposta che manca (idealmente abbinata a una sua teorizzazione scientifica), diffonde malumore e inutilmente divide in fazioni. Eppure saremo comunque condannati a stare, almeno contro il Covid, tutti dalla stessa parte.
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