Nel centenario della marcia su Roma impera, inevitabile, il ricordo del marciatore, Benito Mussolini (in senso metaforico, perché alla marcia non partecipò direttamente). Al termine delle rievocazioni giornalistiche, di nuovo, rimarrà pallido o eluso il ricordo del marciato, ossia del capo del governo che non riuscì a impedire o contenere la manifestazione delle camicie nere che aprì le porte all’avvento del fascismo. Luigi Facta, condannato all’oblio, compare nei manuali di storia quasi dal nulla, un cenno al fatto che fosse il primo ministro in quel momento, spesso solo col corto cognome, come per sgombrarne al più presto la presenza dal rigo e come se il nome fosse già un premio eccessivo per la sua abulia. L’epurazione coinvolge persino la toponomastica. Trovare una via Luigi Facta è quasi impossibile: a una sommaria ricerca ne riscontro a Piscina e Perrero, piccoli comuni del torinese. Ovviamente fa eccezione la natia Pinerolo, l’unica che lo degna di una piazza.
Il trattamento postumo mi ricorda quello che il vignettista Forattini riservava a Giovanni Goria, piemontese pure lui, primo ministro della Repubblica tra il 1987 e il 1988 per opposti veti tra i big: lo schizzo di un volto a matita, senza naso, bocca, occhi, con l’unico vago elemento di riconoscibilità in una barba. Una barba che, per Facta, bisognerebbe sostituire con gli amati mustacchi a manubrio, che pare modellasse per un’ora al giorno come i biondi boccoli di una ragazza civettuola. Fu etichettato dal primo storico pop del fascismo, Denis Mack Smith, come “timido e ignorante avvocato di provincia, la cui nomina fu presa quasi come uno scherzo”, dallo storico filomonarchico Aldo A. Mola come “il Romolo Augustolo del liberalismo italiano”, scialbo e irresoluto è una media dei giudizi su di lui. La massima pietra dello scandalo è che il 27 ottobre, mentre i miliziani affollavano i treni e gli sterrati, tenne fede alle abitudini salutiste e si ritirò a dormire alle dieci. Tra gli ammirevoli stoicismi caratteriali di Winston Churchill si ricorda la sua raccomandazione di non disturbarlo dalla breve pennica neppure in caso di bombardamenti. Ma quel ritiro nella camera da letto di Facta rimane imperdonato dagli storici. Alla prosa cavillosa di Renzo De Felice strappa addirittura un punto esclamativo! Antonio Scurati, che pure non può obiettivamente sapere se Facta abbia trascorso quelle ore accostando al lume del comodino pagine di Clausewitz o Stendhal, lo descrive come un “anziano signore che non trova nemmeno la forza di scoperchiare il letto. Sdraiatosi sul copriletto, si getta addosso il cappotto appena smesso, ancora umido di pioggia, e si addormenta”. Ben più pregiudizievole per la reputazione sarebbe soffermarsi sul fatto che, dopo la seconda nomina a capo del governo il 19 luglio 1922, dal 17 agosto al 6 ottobre, si sia ritirato per un periodo di riposo a Pinerolo. E non è che potesse rimediare con lo smart working.
Eppure Facta era sin da ragazzo un secchione e lavoratore indefesso. Istradato dal padre alla carriera legale si laureò a diciotto anni, esercitò in breve come avvocato, a partire dai ventitré si buttò in politica come consigliere comunale di Pinerolo, a trentuno ottenne lo scranno parlamentare, il primo di nove legislature. Quando venne prescelto, nel 1922, per succedere al disastroso Bonomi alla guida del governo, non era affatto un carneade. Era già stato per tre volte Ministro delle Finanze e per due Ministro di Grazia e Giustizia, era un giolittiano di ferro, il suo fiduciario. Sfiorò la nomina a Presidente della Camera nel 1920, quando gli fu infine preferito Enrico De Nicola, che sarebbe poi diventato il primo presidente della Repubblica italiana. Aveva perso un figlio in guerra nel 1916. Nonostante fosse stato contrario all’entrata dell’Italia nel conflitto, rispose alla città di Pinerolo che gli aveva inviato un telegramma di cordoglio che “lo strazio è inenarrabile ma ineffabile è l’orgoglio di avere dato il mio figlio alla fortuna d’Italia”. Pur essendo normalmente misurato sino all’eccesso, non era raro che nello stile retorico sbracasse, anche in termini di opportunità: in tempi di attivismo socialista e tensione fra capitale e lavoro, chiese in un comizio agli operai di “elevarsi per il bene di quell’Italia nostra, sorriso della natura, poesia di grandezza, cantico di gloria, sulla quale passò smisurata l’ala di Michelangelo, lampeggiarono le divinazioni di Galileo e di Leonardo, parlarono il linguaggio degli angioli Rossini e Verdi, sfavillarono le spade di Savoia e di Garibaldi (…) Dite o giovani operai, dite con me: Viva l’Italia”. Predisse che “la grande patria italiana potrà avere delle scosse, come ogni popolo giovane ed esuberante, ma è salda nella compagine delle sane virtù italiche, le quali costituiranno la sua guida e difesa verso un grande avvenire”.
Capo del governo, nel 1922, lo divenne la prima volta per effetto di veti incrociati, ed in particolare dell’opposizione dei cattolici verso Giolitti, che tuttavia conseguì una mezza vittoria lanciando il suo gregario. Più che altro era stato necessario porre fine in un modo o nell’altro alla crisi, che fu la più lunga del Regno. Siccome l’Italia era messa a ferro e fuoco dagli squadristi, il governo cadde a luglio ma confermando a Facta la guida del nuovo, che nacque il primo agosto. Il secondo gabinetto aveva ottenuto l’appoggio di Mussolini, era più sbilanciato a destra ma contava alcuni personaggi propensi a fermare insurrezioni e manifestazioni di piazza con la forza (in questo, però, formatisi più contro i socialisti che i fascisti). Il primo provvedimento fu sorprendentemente antipadronale, con la sospensione delle disdette agrarie, però rimase isolato. Il suo smacco più grande fu che le prefetture ignorassero gli ordini rivolti a stroncare le violenze fasciste. Facta, come detto, seguì lungamente le vicende da lontano e il 24 settembre trovò il tempo di organizzare a Pinerolo un banchetto per 3500 persone, compresi 117 parlamentari, durante il quale in un breve discorso osservò genericamente che “occorre l’immediata difesa di ogni diritto e l’intervento dello stato” ma pure “un’altissima opera di persuasione e correzione dei costumi”. Pare tuttavia che avesse, nella stessa occasione, proposto una “contromarcia” su Roma mettendo alla testa D’Annunzio.
Si arrivò ai giorni cruciali. Il 24 ottobre autorizzò Mussolini a tenere una manifestazione al teatro San Carlo di Napoli, e sembrò che il leader fascista lo ripagasse con un discorso relativamente responsabile. Il 26 lo deluse avviando i preparativi per la marcia su Roma ma anche lo lusingò, ipotizzando che i fascisti sarebbero entrati con i ministri in un governo se fosse stato presieduto da Facta stesso, e Facta di ciò informò il re per telegramma. L’uomo che soltanto il 12 ottobre aveva confessato in una lettera alla moglie di non poterne più e di desiderare il ritiro a vita privata era stato colto dal demone dell’ambizione, sognando di passare alla storia come il condottiero della pacificazione nazionale e non solo come un luogotenente di Giolitti, che nel frattempo si teneva in disparte a Cavour. Il 27 vanamente attese una telefonata di Mussolini mentre la marcia su Roma aveva ormai preso corpo. Riunì il consiglio dei ministri e, sempre sulla base della promessa di Mussolini, convinse i membri a rimettere a lui il mandato, affinché fosse possibile sostituirli con i ministri fascisti. Tardò ad avvisare il re, in quel momento a San Rossore, che il precipitare della situazione ne richiedeva urgentemente la presenza a Roma: può darsi che non volesse il fiato del re addosso per avere le mani più libere in una trattativa con Mussolini, ma ovviamente non si fa a onore alla corona supponendo che il monarca fosse tanto imbecille e insensibile da non tornare anche senza richiesta.
Alle otto di sera, quando era appena giunto dalla stazione, Facta gli diede conto della piega degli avvenimenti e suggerì che si dovesse ormai ricorrere allo stato d’assedio. Il re liquidò “la pressione dei moschetti fascisti” come un fastidioso cerchio alla testa, lasciando presumere l’assenso e dichiarando che l’ordine pubblico andava mantenuto ad ogni costo. Alle cinque e mezza del mattino il governo si riunì e deliberò il decreto di stato d’assedio, il cui documento, in assenza di precedenti meno remoti, era stato elaborato a partire da quello di Pelloux, del 1898. Sul proclama ufficiale era scritto che le autorità dovessero “mantenere ordine pubblico e impedire occupazioni di uffici pubblici, azioni violente, concentramenti e dislocamenti armati usando tutti i mezzi a qualunque costo e con arresto immediato e senza eccezione di capi e promotori del moto insurrezionale”. Quando le prefetture erano ormai allertate, gli attacchini avevano affisso il manifesto, le forze dell’ordine pronte ad agire, anche se è difficile dire con quale complessiva disposizione d’animo, Facta si presentò al re per la firma del decreto. Vittorio Emanuele si infuriò, gli strappò dalle mani il documento e lo ripose in un cassetto, tuonò che certe decisioni spettavano a lui, che dopo lo stato d’assedio c’era solo la guerra civile e che a questo punto era necessario che uno di loro due si sacrificasse. Con un’improvvisa vampata di humor britannico Facta rispose (stando alle sue memorie). “Sua Maestà non ha bisogno di dire a chi tocca la pena”.
A Facta viene storicamente attribuita la colpa di non avere parlamentarizzato la crisi, cioè di non avere riunito in permanenza le Camere (eclissate invece, dopo il voto di fiducia), o persino di non essersi dimesso due giorni prima: è difficile immaginare che l’una o l’altra cosa sarebbero state efficaci per fermare l’avanzata del fascismo. L’Italia liberale si era ormai orientata a considerare il fascismo un fenomeno che si poteva riassorbire normalizzandolo dentro le istituzioni, aveva creduto che Mussolini ne fosse il domatore piuttosto che il piromane; e Vittorio Emanuele, forse impaurito che il suo trono potesse vacillare a favore del Duca d’Aosta, si fece connivente rifiutando la firma. Con tutti i suoi limiti, tentennamenti, incertezze Luigi Facta fu pur sempre l’uomo che aveva infine giocato la carta della difesa dello stato e dello scontro frontale. Al di là di tutte le interpretazioni, è scorretto confinare nel dimenticatoio l’unica, indiscutibile, verità di Facta-checking.
Un mese dopo la marcia su Roma, a Pinerolo, una targa commemorativa dei trent’anni parlamentari di Facta venne attaccata da un gruppo di fascisti torinesi. Il giornale locale “La Lanterna” resocontò che “i responsabili dell’atto vandalico furono immobilizzati dai compagni e condotti in casa Facta per esprimere alla consorte le più ampie scuse per il triste fatto (…) Quindi i capi fascisti, discesi dall’abitazione seduta stante facevano giustizia somministrando loro una buona dose di legnate, per cui uno di essi fu mandato via in barella”. Anche quando la vittima era colui che appena trenta giorni prima governava l’Italia, la concezione della giustizia liberale veniva già soppiantata dalla giustizia fascista.
Nel 1924 Facta fu eletto senatore a vita e fece a tempo ad assistere, con la consueta discrezione, alla dissoluzione del vecchio regime costituzionale.
Nel 1930 assunse la sua ultima posizione orizzontale sopra un cuscino, stavolta senza che nessuno si ergesse a criticarla, e si alzò sopra di lui, fino farlo scomparire, la coperta della storia.
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