Cent’anni fa nasceva Luigi Meneghello
Certo è uno dei romanzi più belli e significativi del secondo Novecento italiano, e probabilmente quello con il titolo più originale. Libera nos a malo può suonare cupo e spigoloso ma è un felicissimo calembour, un gioco di parole fondato sul luogo di svolgimento della storia e di nascita di Luigi Meneghello, il paese vicentino di Malo. Libera nos a Malo, la coda finale del Padre Nostro, qui introduce a una diversa auto-esortazione che lo scrittore rivolge a sé, liberarsi dal borgo natio: non nel senso di abbandonarlo e disfarsene (quando Meneghello, quasi quarantenne, decide che i suoi appunti sono degni di trasformarsi nella stesura del suo tardo esordio narrativo vive ormai a Reading, la città inglese dove insegna letteratura italiana), ma di prenderne la distanza interiore sufficiente per raccontarlo come un antropologo.
Il nodo di questo finale della preghiera si complica ulteriormente perché i malandesi (così si chiamano gli abitanti di Malo: ovviamente non maliani né malesi) lo capiscono in un modo diverso. L’officiante lo pronuncia sovente in un latino maccheronico, svelto e rattrappito in cui il termine della preghiera si fonde con l’amen conclusivo. E così Nino (uno dei fugaci personaggi del romanzo), al pari di altri, lo intende come amaluàmen, e la richiesta diventa di essere liberati dal luame. In vicentino il luame è il letame, che diventa l’anello di congiunzione tra la metafisica e la materialità più ripugnante, tra la metafora e le paure concrete (come quella che i bambini cadano nella palude). Così il senso della devozione focalizzata sull’amualàmen viene così reso da Meneghello: “È raro che una preghiera centri così un problema. Liberaci dal luàme, dalle perigliose cadute nei luamàri, così frequenti per i tuoi figliuoli, e così spiacevoli; liberaci da ciò che il luàme significa, i negri spruzzi della bocca, la bocca del leone, il profondo lago! Liberaci dalla morte ingrata: del gatto nel sacco che l’uomo sbatte a due mani sul muro, del cane in piazza a cui la sfera arroventata fuoriesce dal sottopancia, dal maiale svenato che urla in cima al cortile, del coniglio muto, del topo di chiavica che stride nel feroce trambusto dei rastrellatori. Libera Signore i tuoi figli da questo luàme, dalla sudicia porta dell’Inferno!”.
Questo è un saggio della prosa allagante di Meneghello, che raggiunge più volte vette di abbagliante bellezza. Il segreto di questa lingua è la tensione che si instaura tra l’italiano alto e il dialetto, nel loro urto, nella loro frizione, nello scombinarsi l’un l’altra, nel chiarire, fraintendere e infine scolpire il senso. Ma la ragione per cui Meneghello ricorre al dialetto non è tanto stilistica quanto psicoanalitica e morale: come ha spiegato egli stesso, “ci sono due strati nella personalità di un uomo; sopra le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto. Quando se ne tocca una si sente sprigionarsi una reazione a catena, che è difficile spiegare a chi non ha il dialetto (…) la parola del dialetto è sempre incavicchiata nella realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che impariamo a ragionare, e non più sfumata in seguito dato che ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua. Questo vale soprattutto per i nomi delle cose”.
Si è obbligati a definire Libera nos a malo un romanzo sperimentale perché non è paragonabile a nulla di precedente, perché impasta l’oralità con la scrittura elegante, perché (e stiamo parlando del 1963) un buon terzo del libro è fatto di materia altra che la narrativa, e poi per via di questo rimbalzo col dialetto e di un’apparente assenza di linearità cronologica. Ma nello sperimentalismo è insita un’asperità di lettura del tutto estranea a questo testo, di una fluidità e di una chiarezza ammirevoli (oltre che di un senso dell’umorismo e dell’ironia educati all’inglese); e tutte le caratteristiche che ho appena espresso non vanno prese alla lettera. Meneghello ha cura di sottoporre il dialetto a un “trasporto” nella lingua italiana quando necessario per la comprensibilità; anche se in alcuni passaggi gli io autobiografici dello scrittore si sommano e si susseguono (corrispondendo alle prospettive di età diverse), i trentuno capitoli del romanzo sono divisi in modo piuttosto pulito, con un asse centrale a separare l’infanzia e l’età adulta; le parti di narrativa pura sono folgoranti racconti che a volte persino in dieci righe sono in grado di cesellare personaggi indimenticabili; e il pastiche della mescolanza di generi saggistici non innova il ricettario e semmai ne ripesca di desueti. Le perle di lirismo comico abbondano: vi sfido a trovare, salvo quello di Duchamp, orinatoi più affascinanti di quelli pubblici, qui narrati in una mezza paginetta. Altra precisazione: l’autobiografismo di Meneghello non serve, come per molti scrittori dell’attualità, per debordare di sé dentro il racconto bensì per svolgere, con efficacia e credibilità, il ruolo di osservatore (un osservatore col gusto di ribaltare le proporzioni tra il dettaglio e il contesto).
La trama, sarà ormai chiaro, altro non è che la storia di all’incirca trent’anni di vita della comunità di Malo, e il valore storico e sociologico, che si aggiunge a quello letterario, è la rappresentazione paradigmatica della provincia di una parte d’Italia in un periodo che va dalla fase ancora contadina all’inizio della trasformazione manifatturiera. Ancora una volta devo dire, e poi attenuare; paradigmatica sì, ma solo per grandi linee. Se le parti saggistiche descrivono fenomeni che si possono immaginare come nazionali, il rischio della stereotipizzazione è tagliato alla radice per le peculiarissime caratteristiche individuali dei personaggi, che rendono meno greve il destino segnato che la continuità generazionale di un luogo preindustriale cristallizza. Lo sguardo di Meneghello è nostalgico ma del tutto consapevole delle limitatezze (alle quali del resto si è sottratto). C’è un valore assoluto che riconosce ai paesi come Malo rispetto alle zone urbane che hanno meglio assimilato i precetti della costruzione nazionale, e che definirei la non alienazione, riassumibile in due macro-fattori (e una tutela interiore, che è il solito dialetto): il primo consiste nella stabilità dei rapporti, nella durevolezza della cose, nella personalità delle opere artigiane, negli spazi di condivisione tipici della comunità retta dalla solidarietà organica (al lirismo e alla sincerità di Meneghello si perdona l’omissione dei conformismi costrittivi e delle forme di oppressione e patriarcato che di solito maturano in questi contesti, e il pericolo che quella vita autentica sia più facile da indirizzare in senso autoritario); il secondo è la morbida resistenza all’irreggimentazione nazionale del “codice culturale ufficiale, espresso per iscritto in una lingua forestiera” che “dava l’impressione di una convenzione vuota e (benché indiscusso, come le malattie) restava astratto fino al momento in cui il braccio secolare o ecclesiastico non intervenisse a raggiungerci”.
Che “Libera nos a malo” sia un gioco di parole non esclude che il titolo sarebbe potuto restare immutato pure se proposto secondo il modello canonico (non inteso letteralmente! Visto che di trastulli polisemici si parla, è bene precisarlo). Di preti, di prediche, di chiese e di confessioni è scritto molto, sin dalle prime pagine. Né potrebbe essere diversamente, data la presenza del cattolicesimo nella vita quotidiana nell’Italia degli anni cinquanta e sessanta, rispetto al quale però pure i paesani di Malo adottavano i loro ampi correttivi, con “lo stretto necessario per salvarsi”, che potrebbero originare un decalogo a sé stante (Meneghello decide di fermarsi alla rivisitazione del quarto comandamento). E molte pagine sfiorano con grazia e senso atipicamente religioso il tema della morte, come nella poetica descrizione del rampicante che si inerpica sul monumento dei caduti, in uno di quegli speciali afflati poetici con cui le descrizioni di Meneghello si soffermano sull’intersecarsi della natura con l’opera umana (e che in termini scientifici renderebbero raggianti i teorici della coscienza incarnata). Ma nessun tema, e nemmeno la morte, si sottrae al disincanto dell’ironia. Del resto zia Gegia, di sé, diceva che presto sarebbe finita a mangiare il radicchio per il manico.
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