Leggi la prima parte dei Misurabili
Siamo, a quanto pare, il paese che in Europa commissiona più sondaggi politici: 193 dal primo gennaio al 30 giugno. Il sondaggio è una misurazione, fatta per approssimazione, che da una parte riguarda una situazione prospettica e ipotetica (se si votasse oggi quali sarebbero i risultati); dall’altra, sempre per approssimazione e proiezione, si riferisce a un fatto attuale: quanti elettori hanno cambiato intenzione di voto nel lasso di tempo tra il penultimo e l’ultimo sondaggio?
A essere precisi, misurare il numero di cambiamenti è praticamente impossibile, a meno non vengano sempre interpellate le stesse persone, riportandone nome e cognome (e però il valore casuale del campione si riduce); oppure che non si chieda di dichiarare cosa avevano risposto nel sondaggio precedente (e però ci si affida a ulteriori variabili soggettive, entrando in gioco l’idea che la persona vuol far passare di sé). Potrebbero anche avere cambiato tutti l’intenzione di voto ma miracolosamente gli spostamenti essersi prodotti in modo da determinare un risultato complessivo identico ai precedenti (ad esempio il Pd perde tutti i suoi vecchi voti ma acquista una quota di voti leghisti pari alle preferenze che aveva nel precedente sondaggio, ecc.). Quel che conta, però, sarebbe la somma finale che un partito perde o guadagna, misurando il livello di consenso.
Sondare non è proprio misurare
La vicinanza dei sondaggi, tuttavia, li rende di durata troppo breve per essere credibili. Tanto più è volatile la preferenza, tanto più significa che il sondaggio fotografa gli spostamenti degli elettori più volubili, e quindi tanto meno è interessante, perché quelli cambieranno idea altre cento volte.
Aggiungiamo che vi è una notoria differenza tra esprimere una preferenza all’interno di una scelta che dovrà compiersi in futuro e fare effettivamente quella scelta, al momento della quale le persone tendono a essere più conservative. La corretta domanda del sondaggio politico, dunque, dovrebbe essere: se in questo momento vi intervistassero per un sondaggio che vi chiedesse per quale partito votereste in caso di elezione, quale partito indichereste? La breve durata del periodo di misurazione causa una qualità scadente del suo esito e un contenuto reale molto lontano da quello preteso.
La misura del contagio
Il caso macroscopico del sondaggio politico non è troppo distante dalle reiterate misurazioni che si effettuano per il Covid che, come ho già scritto, hanno generato una sorta di pandemia dei dati. Anche qui più si misura e peggio si misura, perché la durata della misurazione viene scelta secondo il nostro desiderio di essere informati in quel dato tempo, del quale però i dati se ne fregano seguendo la loro logica interna. Se la durata della misurazione non è quella appropriata, l’esito non solo non è probante ma rischia di essere addirittura sviante e di non rispondere alla domanda desiderata. Ad esempio, se è fuori di dubbio che gli Stati Uniti e il Brasile agiscono in modo sconsiderato, e quindi a cattivo dato corrisponde cattiva condotta, non siamo ancora in grado di dire se paesi come Israele e Svezia, che hanno fatto circolare il virus e quindi teoricamente si sono avvicinati all’immunità di gregge, saranno quelli con i peggiori risultati. Gli scienziati che negli ultimi giorni sostengono che nella storia delle epidemie la seconda ondata è stata più grave della prima hanno giustificato questa fosca previsione con il fatto che nella prima non si realizza una diffusione sufficiente (e quindi non si eleva l’immunità). Se questo fosse vero, le misurazioni che stiamo facendo ora sarebbero non solo incomplete (tutte sarebbero tali fino alla fine del contagio) ma anche da leggere a rovescio, almeno in termini previsionali.
L’equivoco della misurazione oggettiva
Il punto su cui insisto (che riguarda qualsiasi tipo di misurazione, anche quella automatizzata dagli algoritmi che governa una serie di strategie aziendali) è che la misurazione oggettiva è un equivoco, perché la sua impostazione è variamente determinata dall’uomo, e questo si riflette sui risultati. La soluzione non è quella di abbandonare le misurazioni, che ovviamente sarebbe folle, ma di limitare l’impiego del modello data driven. Ammettere dunque l’influenza umana e regolarsi di conseguenza, rendendola trasparente al processo e dichiarandola inizialmente (per rendere più semplice capire quali bias sono stati introdotti e più strategico il processo di selezione dei dati) e recuperandola al termine del processo, per ragionare sui dati in modo astratto, induttivo e abduttivo e procedere per questa via alle correzioni del caso.
La durata di una misurazione è il primo elemento arbitrario, poiché nessuna misurazione può stabilire quale sia la durata corretta di un’altra misurazione se prima non si è stabilito quanto debba durare essa stessa (rinviando, come è chiaro, il problema all’infinito).
Oggi le principali misurazioni tendono al periodo breve, quello socialmente richiesto dalla ricerca di utili nell’immediato degli azionisti, dalla insostenibilità della pressione rovesciata sui dirigenti del marketing e i comunicatori, dalla rincorsa mediatica dei politici, dalla scarsa volontà delle amministrazioni locali di impostare programmazione pluriennali i cui risultati emergerebbero dopo il rinnovo o meno del mandato, dalle ansie del pubblico, dal recente e preoccupante sensazionalismo scientifico che diffonde ipotesi dopo misurazioni incomplete o troppo corte. E, specialmente nel breve, prende consistenza quella scomoda legge per cui la facilità della misurazione può essere inversamente proporzionale all’importanza di ciò che viene misurato.
Durata della misurazione e peso delle interferenze
Si dirà che il rimedio esiste, ed è la misurazione ininterrotta, che nel caso degli algoritmi si traduce nella continuità del monitoraggio. Il fatto è che la misurazione non è tale senza una durata finita, e in linea di massima non è utile se non esprime una comparazione con dei dati che sono fuori da quella singola misurazione. In pratica, il monitoraggio non è che la somma di una serie di misurazioni. Inoltre, proprio l’intervento correttivo rende la misurazione successiva non più omogenea con quella precedente, e introduce un elemento soggettivo (l’interferenza dell’osservatore) in quello che si vorrebbe fosse il riscontro oggettivo di comportamenti non indirizzati da interferenze volontarie. E ancora, nei processi di misurazione ripetuti è quasi impossibile scansare l’interferenza reattiva del soggetto osservato (che a volte, come nei sondaggi politici – ma può valere anche in alcune ricerche di mercato – è consapevole di essere l’oggetto della misurazione e si regola secondo le sue finalità interiori).
È appunto l’interferenza la principale nemica della misurazione, e deriva non solo da atteggiamenti soggettivi ma pure da fattori causali non riconducibili alla volontà individuale e da fattori interni alla stessa aggregazione dei dati. Ogni predeterminazione di durata conduce con sé le interferenze che interessano proprio quel periodo. Quantificare gli spostamenti delle persone da un luogo all’altro comporta l’interferenza climatica da una settimana all’altra, questo è evidente, ma vi sono interferenze molto più sottili che agiscono per sottocategorie all’interno delle aggregazioni considerate, scomponendole senza che il sistema rilevatore sia in grado di interpretarle o addirittura di percepirle (e che non necessariamente si ripetono nella misurazione successiva). Senz’altro non è in grado di programmarne l’esito sulla misurazione principale, se non a prezzo di una pesante standardizzazione che finisce per distorcerle.
Molti fanatici della misurazione ritengono erroneamente che l’analisi dei dati possa prescindere dal fattore umano al momento finale dell’analisi. Al contrario, è già dal principio che il processo di misurazione richiede un giudizio di competenza (spesso anche in termini di scienze sociali), già solo per stabilire quanto deve durare; e poi, mentre si svolge, per ipotizzare quali interferenze non direttamente misurabili siano all’opera.
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