Che le donne siano tuttora ai margini del management aziendale non è solo desolantemente sessista, è anche economicamente sfavorevole. Secondo uno studio di McKinsey, fra le società quotate in borsa, quelle collocate nel primo quartile per diversità di genere nel management portano a casa il 25% in più di utili di quelle situate nell’ultimo quartile. In questi casi, per la verità, è difficile stabilire quale sia la causa e quale l’effetto: forse le corporation che non esitano a lasciare spazio alle donne nei ruoli direzionali si contraddistinguono per una maggiore apertura e dinamismo, che si rispecchia nei risultati aziendali. Allo stesso modo si può spiegare la migliore performance (+35%) che le imprese con una superiore diversità etnica nel management realizzano rispetto a quelle che sono rigorosamente biancocentriche. Ma non è poi così importante stabilire se viene prima l’uovo o la gallina. Quel che è sicuro è che contro l’importantissimo discorso morale dell’inclusione nelle opportunità di carriera non può essere neppure speso l’argomento della redditività e della competenza. Per quanto concerne le donne, poi, sono personalmente convinto che la loro
presenza ai vertici aziendali ne allarghi l’agire etico (e le statistiche, sin qui, confortano tale opinione).
Alla luce di questa premessa, dobbiamo davvero salutare con entusiasmo la svolta culturale del Nasdaq (la borsa dei titoli tecnologici), e il fatto che Wall Street paia orientata ad emularla?
Spiego di cosa parliamo. Nel 2020, con effetto dal 2022, il Nasdaq ha deciso di rendere sostanzialmente requisito per l’ammissione all’indice, o permanenza nello stesso, il fatto che i consigli di amministrazione contengano almeno una donna. Di più: dovrà farne parte anche il rappresentante di una minoranza etnica o di genere, cioè o un LGBTQ+ o (ad esempio) un ispanico o un afroamericano. In assenza la società dovrà giustificarne la mancanza, e se la spiegazione non sarà considerata adeguata scatterà la radiazione. Tanto il problema è reale che i tre quarti delle società, in questo tempo rimanente, dovranno organizzarsi, perché non rispettano il criterio. Nelle cento più grandi imprese Usa solo il 28,2% ha una donna nel board (che è pure un progresso, visto che 15 anni fa era il 16,9%) e il 20,6% un appartenente a minoranza etnica.
E gli LGBQT+? Qui cominciano i problemi: le statistiche mancano perché non è mai stato fatto un censimento dei gay, non foss’altro perché nessuno di loro è tenuto a dichiarare il proprio orientamento sessuale. Ma siamo sicuri che avrebbe senso? Se domani Bezos, Page, Gates e Zuckenberg facessero coming out dovremmo rivedere le nostre opinioni – quali che fossero – sull’inclusività delle loro aziende? Se, nei cda esistenti di una qualsiasi corporation, uno dei componenti rinnegherà pubblicamente le sue preferenze etero avremo risolto il problema? Se il tema della discriminazione in azienda o dell’inclusività va trattato, per questa categoria, con la stessa, identica attenzione che per le altre, è ben più discutibile fare dell’orientamento sessuale un criterio di affirmative action nel campo del management. Perché non anche le minoranze religiose, allora?
L’equivoco però è molto più profondo. Si può discutere a lungo sul sistema delle “quote” e dell’opportunità di tradurle in obblighi normativi a vari livelli: ma qui si tratta di un’istituzione strettamente finalizzata a un obiettivo economico che, nel momento in cui deve qualificare sul piano della giustizia sociale le società commerciali, si focalizza sulla diversity invece che sul rapporto tra capitale e lavoro. Non stiamo parlando dei fondamenti della comunità (nella quale già è quanto meno aperta la questione se venga prima la questione di classe o quella di genere) ma della sede squisitamente destinata al conflitto di classe.
È una violazione clamorosa di priorità. Troverei sinceramente più significativo che l’obbligo riguardasse la rappresentanza dei lavoratori nei consigli di amministrazione (lo sapete, no? che in Italia, ad esempio, esiste al riguardo anche una ignoratissima norma costituzionale, l’articolo 46?), o il trattamento dei dipendenti. Che Uber possa rimanere quotata in borsa continuando a perdere cause in tutto il mondo per la sua sostanziale frode delle tutele sindacali dei lavoratori – basta che si preoccupi di mettere nel board due persone di categorie storicamente discriminate (persone evidentemente scelte tra quelle che sono privilegiate nella classe sociale) è uno sconvolgente specchietto per le allodole. In questo modo anche i movimenti per le lotte di genere ed etnia si rendono complici dell’autoconservazione ipocrita del capitalismo liberista.
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