Ci sono due passaggi particolari in cui emerge il concetto di necessità legato alle disposizioni per contenere il coronavirus. Uno riguarda i beni che possono essere venduti in questo momento, solo quelli alimentari e gli altri di “prima necessità”. L’altro, ancora più centrale, riguarda le “misure necessarie” che sono adottate per effetto dell’emergenza.
Non bisogna confondere la verità dello stato di emergenza con la verità delle misure necessarie. Che vi sia uno stato di emergenza (e un’epidemia ne è un caso conclamato, sempre) rende necessarie alcune misure restrittive: ma – da solo – non dice quali debba esserne il contenuto.
Siccome anche per i governanti più illuminati è impossibile fotografare con esattezza la risposta a un’emergenza, essi dovranno procedere per approssimazione, scegliendo uno fra due soli criteri: muoversi nel perimetro di quel che appare strettamente necessario, lasciando tendenzialmente fuori ciò di cui non è certa la necessità; oppure tenersi larghi nelle restrizioni, per accrescere la capacità di raggiungere l’obiettivo che ha generato l’emergenza.
Vari fattori orientano l’inclinazione verso l’uno o l’altro polo. Su tutti campeggia la gravità dell’emergenza; ma hanno un peso anche la salvaguardia dei valori che in una certa comunità sono considerati essenziali, i danni collaterali che le misure potrebbero provocare e la prevedibile durata dell’emergenza. Nessuna discussione che prescinda dalla ponderazione completa di questi fattori, che vengono presi in considerazione anche durante una guerra, si può considerare sensata.
Con i giorni, anche nell’opinione pubblica, si consolida progressivamente l’idea che si debba tenere conto esclusivamente della gravità. Del cittadino non si censura, come sarebbe ovvio, la violazione dei divieti (che del resto è pesantemente sanzionata) ma pure l’esercizio delle facoltà che non sono state soppresse e che continuano a tenere le persone per strada – almeno fino al minuto in cui scrivo – come l’esercizio di un’attività fisica o persino lo svolgimento effettivo (all’interno delle regole di cautela prescritte) di una delle attività produttive o di servizi che non sono state sin qui sospese. Per il danno collaterale più temuto, il collasso economico, si reclama che il governo faccia di più (cioè non più di questo o di quello; di più comunque) mettendo le imprese in condizione di ripartire quando sarà venuto il momento. Viene invocata una misura di controllo assoluto, quale il tracciamento digitale delle persone, precisando che durerebbe giusto il tempo dell’emergenza, e annotando che la Corea in questo modo – e con l’isolamento – ha risolto il problema, senza ricorrere ad altri misure restrittive.
Ma ecco che in Corea sbucano 150 nuovi contagiati. Ecco che l’OMS scopre (purtroppo tanto c’è ancora da scoprire sul virus) che anche alla cessazione dei sintomi, i contagiati rimangono infettivi per altre due settimane. E la data di riapertura delle scuole, come la cessazione di altre misure restrittive, come era ampiamente prevedibile slitta.
Non c’è da invidiare la classe politica che in questo momento deve prendere decisioni, anche perché si tratta di scelte quasi al buio. Ma è sufficientemente evidente, e ormai proclamato da ogni comunità scientifica, che con il Covid 19 avremo a che fare per parecchio. Bisogna ormai tenere a mente che, finché non sarà disponibile un vaccino, anche l’esistenza di un solo contagiato, magari asintomatico, (nel paese, se quello tiene chiusi i confini; nel mondo se i confini sono aperti) o la pura possibilità che il virus si riformi rendono l’emergenza uno stadio potenzialmente tanto lungo da sforare quella circoscrizione temporale che induce a definire emergenza un evento e trasformarsi in un orribile stadio di normalità. Siccome un virus, se non dal vaccino, viene sconfitto dall’immunità di gregge conseguente all’incremento dei contagiati, è proprio la diluizione del contagio che ci inchioda alla sua lunghezza. E tuttavia il mostruoso divario tra i posti disponibili alla terapia intensiva e le risorse mediche (un problema quest’ultimo che si rivelerà in tutta l’enormità negli Stati Uniti e in Africa), da un lato, e la quantità di persone che avrebbero bisogno di assistenza se il contagio si diffondesse rapidamente costringe a ergere una barriera. La vera emergenza, più che il coronavirus, è questo divario.
Ciò significa che l’intero sforzo economico immediato deve concentrarsi sull’ospedalizzazione dei paesi, con tanto di riconversione degli edifici adatti alla cura e all’isolamento, arruolamento in servizio e formazione accelerata di persone che possono inserirsi nella catena sanitaria, produzione straordinaria di attrezzature e mezzi di contenimento e massificazione delle diagnosi. Non dico che debba essere occultato il numero dei morti e dei contagiati, ma sarebbe ancora più importante e trasparente conoscere lo stato nazionale di questa pianificazione e il livello di avanzamento della sua esecuzione. Quanti posti in più saranno disponibili fra quindici giorni? E fra un mese? Fra tre?
Meno procederemo in tal senso e più lungo sarà il tempo del Covid19: e quindi le misure restrittive nella forma attuale saranno insostenibili, e non perché la razza umana sia poco disposta ai sacrifici. L’ipotesi di vietare le corse mi sembra un esempio interessante. Sarebbe bene tenere a mente, quando si dice che c’è troppa gente per strada, che nessuno si contagia per strada, il luogo dove è più facile rispettare misure di sicurezza. Poi c’è il problema concreto di non creare spazi di aggregazione – che generano contagio come se fossero un luogo chiuso. È per questo che l’attività ammessa sarebbe quella puramente fisica, praticata in solitudine, anche la semplice passeggiata. Però siccome sarebbe impossibile controllare dove vanno tutti quelli che passeggiano, l’attività fisica si è ridotta alla corsa. Ma si può continuare a procedere per sottrazione? Oltre tutto secondo una visione classista quando si invitano le persone a contentarsi della palestra casalinga, del terrazzo di casa e di mettere a frutto il tempo riscoprendo i classici della filosofia e i tesori nascosti dell’intimità domestica, come se questo fosse un plausibile ritratto socio-economico del paese e del suo assetto abitativo e familiare di massa.
La stessa misura che può essere accettabile per quindici giorni diventa insopportabile protratta per mesi. È tutta la prospettiva che si modifica se allunghiamo realisticamente l’orizzonte temporale, il quadro di ciò che è necessario si allarga notevolmente, e non nella direzione di oggi. Potremo continuare a considerare genere di prima necessità la senape, giacché si trova nel reparto alimentare del supermercato, e non i quaderni? E le sigarette invece dei libri? Come quantificheremo il costo umano e sanitario delle patologie derivanti dall’inattività fisica, delle depressioni, delle malattie gravi non diagnosticate per interruzione della prevenzione, delle violenze domestiche, della distruzione dello spazio pubblico? Possiamo sopravvivere degnamente in una società in cui una buona parte dei pilastri culturali – editori, cinema, teatri, musei – sarà stata spazzata via da mesi di inattività, e la stessa didattica ridotta a un suo surrogato digitale? E alla metabolizzazione di pratiche che dissolvono l’identità democratica? Quanto alle attività economiche, nel momento in cui una percentuale elevatissima sarà stata costretta alla chiusura definitiva – basteranno pochissimi mesi per quelle locali e turistiche, e poco di più per quelle che faranno parte di una filiera in disgrazia – è chiaro che non sarà possibile più ragionare in termini di sostegno alla ripresa ma sarà da mettere in discussione lo stesso principio economico del libero scambio, se non vorremo precipitare nella guerra civile.
Il nostro governo è stato il primo, fra quelli occidentali, a dover affrontare l’emergenza. Era facile sbracare, e non è accaduto. Era difficile immaginare un Presidente del Consiglio più capace di mediare, rassicurare e unire. L’impreparazione strutturale (del mondo, non solo dell’Italia) può ancora giustificare una stretta ulteriore nelle aree più sotto attacco. Ma da molto presto, per il nostro governo come per tutti gli altri, dovremo considerare la qualità del nostro futuro direttamente proporzionale ai progressivi allentamenti delle misure (anche durante il contagio) e non alle loro restrizioni. Fermo restando che sarà comunque un futuro diverso da quello che immaginavamo.
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