Può esserci qualcosa di più noioso che trascorrere la serata con una persona che ragiona solo per stereotipi? Giusto passarla con un assicuratore!
Ovviamente questa seconda parte non è vera, al massimo è uno stereotipo, e uno stereotipo debole perché non ha una larga diffusione nel connotare la fisionomia psicologica e sociale dell’assicuratore (solo un po’ al cinema. Nella chiusura di “Amore e guerra”, il personaggio interpretato da Woody Allen, da poco giunto nell’Aldilà, definisce la morte terribilmente noiosa e aggiunge che chi ha trascorso la serata con un assicuratore sa di cosa sta parlando; e in “Ricomincio da capo” uno dei momenti più funesti delle giornate di Bill Murray che replicano ogni evento di quella precedente è l’incontro con l’amico di infanzia che spera di affibbiargli qualche polizza).
Lo stereotipo sociale è la semplificazione di un tratto del carattere applicata a un intero gruppo di persone. Se è il modo di vedere soltanto di un individuo, o pochi, non è uno stereotipo (esempio: qualcuno convinto che i lituani tossiscano più degli altri). Deve trattarsi dunque di un pregiudizio diffuso; inoltre deve rivestire un certo rilievo nel qualificare i membri di un gruppo (se anche fosse vero che tutti i triestini si allacciano prima la scarpa sinistra non ne discenderebbe alcun giudizio di valore).
Le scienze considerano gli stereotipi una scorciatoia che il cervello imbocca per districarsi nell’eccesso di informazioni. Di base quindi sarebbero una forma di conoscenza, ancorché imperfetta; più si consolidano, tuttavia, più diventano una forma di ignoranza, la deviazione su un sentiero sbagliato piuttosto che una scorciatoia. Lo stereotipo non è esattamente un’opinione, bensì la rinuncia a formarsene una per poggiarsi su quel che “si dice” nel proprio ambiente riguardo a certe categorie di persone.
Quasi nessun gruppo si salva da una stereotipizzazione, che di solito si attiva in due situazioni opposte: quando del gruppo si ha conoscenza e interesse molto limitato, e quindi bastano e avanzano le generalizzazioni, che non sono per forza acrimoniose; oppure quando il gruppo viene percepito come minaccia, e la sua stereotipizzazione serve a compattare l’in-group, e quindi è negativa. I tratti eventualmente positivi sono direttamente funzionali alla conferma della minaccia. I neri sono sessualmente dotati, e quindi irrefrenabili negli appetiti sessuali animaleschi e pericolosi per le nostre donne. Gli ebrei sono tutti dannatamente intelligenti, e non c’è da stupirsi se cospirano per impadronirsi del mondo.
Gli stereotipi generano aspettative destinate a incrementare le offese: oltre che per la frequente connotazione negativa, perché inchiodano gli individui dentro la loro categoria, trascurandone le peculiarità personali. Questo, prima o poi, sfocia inevitabilmente in una frase sbagliata, nel non accorgersi delle qualità personali. Le vittime degli stereotipi (una donna, un nero, un ebreo ma anche chi viene classificato in stereotipi più circoscritti, che si tratti delle parrucchiere, dei ballerini, dei tifosi della Juventus o dei sindacalisti) si sentono evidentemente offese anche quando viene loro rivolto il complimento di staccarsi dallo stigma. “È rumeno ma è un lavoratore fidatissimo”, “È una donna ma non ha paura di niente”, “È un ballerino ma non è omosessuale”. Il più delle volte, poi, l’etichetta dello stereotipo determina un’offesa più diretta, e anche più estesa, quando il soggetto non si riconosce nello stereotipo ma si trova a suo agio nella categoria, e quindi avverte l’offesa sia per sé che per la categoria. In effetti, la stereotipizzazione può rendere inappropriata persino la gentilezza (ad esempio, presumendo l’inabilità totale del portatore di uno specifico handicap eccedo nella premura di aiutarlo a compiere un’azione fisica per la quale non ha difficoltà).
Ma lo stereotipo non avrà una base di partenza reale? Se tutte le volte che ho avuto a che fare con un parigino l’ho trovato altezzoso, sarò padrone di trarne delle conseguenze più generali? Certo, se invece di dire “tutti” utilizzo espressioni come “spesso” o “nella mia esperienza” già siamo su un piano diverso. L’importante è che quando mi trovo con la persona singola che compone quella categoria consideri a mio carico l’onere della prova riguardo al fatto che “anche” lui o lei presenti certe caratteristiche.
Con gli stereotipi di genere e sesso, però, c’è un problema serio riguardo alla veridicità, e cioè che essi sono parte di una narrazione interna a una relazione di dominio. Nonostante la loro apparente bonomia, anche mezzi apparentemente innocui e popolari, come le barzellette e i proverbi, li veicolano prepotentemente e rinforzano la narrazione.
Dobbiamo considerare stereotipo anche un fatto nudo e crudo, come la conformazione cosiddetta “a mandorla” degli occhi dei cinesi, che scandalo recente ha suscitato nella macchietta della Hunziker e Greggio? In realtà, nel passaggio alla verbalizzazione anche il dato fisico – oltrepassato il dato oggettivo per cui un occhio è un occhio e un naso è un naso – diventa una sovrastruttura linguistica (giustappunto “a mandorla”); e soprattutto, quella stessa espressione (e ancor più la sua mimica), ripetuta all’infinito e abbinata ad altre sottolineature caricaturali è in grado di costruire un’etichetta di minorità e stigma.
Ovviamente dipende dai contesti. Si saranno offesi mortalmente i cinesi con la Hunziker? Non si sono sentite grandi reazioni. Avranno pensato, come noi, che quelli erano rimasti agli scherzi della quarta elementare. In effetti, il biasimo è arrivato dall’account Diet Prada, che lascia il sospetto di cercare, con questi interventi tanto carichi, una sua brandizzazione. Ma, al di là dei sospetti su Diet Prada, non è che sia intrinsecamente riprovevole prendere le parti di una comunità cui non si appartiene (e rientrerebbe nell’indignazione e non nell’offesa).
E allora non si può scherzare? Sì, ma lo scherzo, anche nella vita di tutti i giorni, incontra dei limiti di creanza e rispetto, e c’è una grande differenza tra il ridere con e il ridere di. Da un palcoscenico pubblico, poi, lo scherzo non dovrebbe sdoganare o veicolare forme di stereotipizzazione che colpiscono i membri di una comunità. È una questione di responsabilità.
Chiaramente, sulla questione delle offese pubbliche, in questo momento c’è una certa confusione, e pure una discreta tendenza a largheggiare nel biasimo, quando non nella censura (capita nei periodi di transizione, quando sono in corso rinegoziazioni di diritti e libertà fra gruppi). Però non è che possiamo decidere noi per cosa debbano o non debbano offendersi gli altri – e viceversa. Capirlo sarebbe già un buon punto di partenza per riequilibrare la discussione. Qualcuno potrebbe obiettare (e anzi, già lo fa) che tutti i maschi bianchi e liberali non sono capaci di uscire dal loro imperialismo colonizzante: e giustamente il singolo maschio liberale e bianco potrebbe risentirsi per lo stereotipo. Però sappiamo chi ha cominciato.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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