C’è una bellissima barzelletta, molto più antica del Covid, che spiega perché la misura che ha anticipato tutte le altre per fronteggiare la nuova emergenza pandemica sia stata la mascherina all’aperto.
Un vigile, durante la sua ronda notturna, vede un signore un po’ brillo cercare disperatamente qualcosa per terra e gli domanda cosa abbia perso, offrendosi di aiutarlo.
Le chiavi della macchina, dannazione. Sono sceso dall’auto cercando di infilarmela in tasca e mi sono scivolate. E’ un quarto d’ora che cerco ma proprio non le trovo.
Ma dov’è la sua macchina signore?
Lì. E indica una vettura parcheggiata a oltre cinquanta metri di distanza.
Scusi, ma se le sono cadute scendendo dalla macchina perché le sta cercando così lontano?
Perché è l’unico posto dove arriva la luce del lampione.
Ecco, l’atteggiamento del governo è stato analogo. I contagi ripartono. Cosa possiamo fare? Un altro lockdown? Non è possibile. Chiudere i ristoranti? Non se ne parla. Limitare le attività produttive? Ci massacrerebbero. Neppure possiamo restare inerti, però. Facciamo infilare le mascherine anche all’aperto, che almeno non facciamo danno a nessuno.
A dire il vero, non è che il governo italiano questa misura l’abbia partorita dalla sua fantasia. Avevano cominciato le regioni. E prima ancora, la Francia era stata invasa dalle mascherine all’aperto. E prima, ma proprio all’origine, la Cina. E qualche altro stato.
Gli unici che non hanno mai sostenuto che le mascherine servano all’aperto sono gli scienziati. Il virologo Bassetti, mio omonimo, è stato il più franco nel dire che nessuna ricerca scientifica la supporta. Ma se cercate su Internet, che pure dà ampiamente conto dell’esistenza del diavolo e dell’avvistamento di dischi volanti, per quanto vi sforziate non troverete alcuna perorazione scientifica a favore delle mascherine. Contribuisce all’equivoco il fatto che la (corretta) invocazione delle mascherina come chiave per combattere il virus non si sofferma di solito né sul tipo di mascherina- benchè esse non abbiano la stessa efficacia- e nemmeno sul luogo dove vada indossata, non almeno nei titoli: cioè, chiunque legga una dichiarazione scientifica troverà poi precisato che le mascherine servono nei luoghi chiusi, insieme alla ventilazione, per evitare la diffusione attraverso gli aerosol. Se gli aerosol vagassero pure all’aperto non si comprenderebbe neppure l’esigenza di cambiare l’aria negli ambienti chiusi. Nei locali al piano terra, e forse al primo piano, si dovrebbe anzi sigillare tutto, perché statisticamente sarebbe meglio mettere in circolo il fiato delle trenta o cento persone che sono transitate all’interno che non aggiungervi quello delle migliaia che sono passate all’esterno e hanno liberato gli aerosol!
La differenza tra interno ed esterno si rovescia persino nel suo contrario. Abbiamo percorso mascherati il tragitto all’aperto sfiorando qualcuno nella folla. Ma ecco che giunge il momento di liberare la bocca e il naso. Siamo infatti arrivati in un ristorante chiuso, insieme a un’altra cinquantina di sconosciuti (se invece avete invitato a casa tre amici dovere restare coperti fino a che non arriva l’antipasto).
Un osservatore esterno, appena rientrato da un viaggio interstellare di qualche anno, ci prenderebbe per matti. E’ difficile negare che la scena che ho appena descritto sia totalmente irrazionale.
Si potrebbe obiettare che essa risponde a una razionalità più articolata di quella sanitaria. La necessità di tutelare l’economia suggerisce di equilibrare le misure di contenimento del virus con il mantenimento della vita sociale. Ma la volontà di evitare o procrastinare un divieto- come quello di tenere aperti i ristoranti- non rende sensata una misura inutile presa al suo posto. Entriamo nel campo del puro pensiero magico.
Ovviamente, quando le persone si assembrano (sulla terminologia del Covid avevo scritto qui), che sia per trincare fuori al night-bar o per manifestare in nome del negazionismo, la differenza tra esterno e interno viene a sfumare. E sulle riunioni il decreto è intervenuto con diverse misure puntuali, che pure tuttavia un po’ continuano a essere la chiave cercata sotto il lampione. Non possono infatti incidere sul dato (prendiamolo con le pinze, come tutti i dati di questa pandemia, ma come minimo indica una forte tendenza) che quantifica nel 77% dei contagi complessivi quelli in famiglia, e siccome non siamo sotto le feste è difficile credere che ciò avvenga durante cene con quaranta persone e non sia invece l’effetto fisiologico della convivenza quotidiana. E si continuano a preservare i ristoranti e gli altri locali, i quali – per la struttura dell’azione che vi si svolge – non potrebbero certo tollerare la mascherina. Si ipotizza di chiuderli prima: ancora una ricerca sotto il lampione. Al massimo, i ristoranti andrebbero incentivati a rimanere aperti di più: solo in questo modo si spalmerebbe il pubblico in fasce d’orario diverse. Agire restrittivamente sull’orario fornisce l’impressione di attivismo senza confrontarsi veramente con il problema, e con le scomode conseguenze di affrontarlo.
Nessuno di noi (io per primo) dovrebbe avere, nel caso del Covid, la presunzione di fare lo stratega al tavolino. La situazione è talmente inedita e sfaccettata da mettere alle corde qualsiasi decisore, e in Italia – almeno a giudicare dallo stato di cose attuale – le decisioni sono state anche migliori che altrove, o forse lo è stata mediamente la sensibilità delle persone.
Purtroppo, però, nemmeno l’Italia sta riuscendo a sottrarsi alla cappa di irrazionalità che domina l’agire collettivo. Sin qui, i grandi sconfitti della pandemia sono la scienza (non i medici sul campo però) e la tecnologia: la prima profondamente divisa e in certi casi quasi impotente, la seconda efficientemente inadeguata contro un fenomeno che non abbia uno sbocco commerciale.
Ho già scritto perché non credo vadano trascurate le negative ricadute psicosociali di un uso indiscriminato all’esterno della mascherina (e sono ritornato sul tema). Ma quel che mi preme qui è sottolineare quanto sia inopportuno perdere il filo logico nella scansione dei comportamenti. I negazionisti magari fanno danno oggi. Ma quelli che si scansano quando vedono un essere umano a dieci metri di distanza ne faranno ben peggiori nel lungo periodo.
La gestione politica del Covid deve ancorarsi a una rigorosa razionalità. Solo offrendo ai cittadini percezione una profonda coerenza tra quel che si può fare e ciò che è temporaneamente precluso si otterrà la loro piena collaborazione- e li si indirizzerà, anche attraverso il controllo sociale, a un’analoga razionalità. C’è insomma un terzo elemento da calibrare nel raggiungimento di un equilibrio, oltre la gestione sanitaria e la tutela della vita organizzata: l’articolazione degli obblighi secondo una scala di pericolosità reale. Mancando questa dovremo fare i conti con la riduzione della lealtà sociale (e dunque con un crescente numero di trasgressioni) o con un incremento della generale percezione di insicurezza che provocherà gli stessi danni economici di una chiusura (insomma, al ristorante non ci andrà comunque nessuno, salvo quelli più sprezzanti verso il rischio di contagio: e questo innescherà un circolo vizioso per il quale diventeranno realmente luoghi insidiosi di contagio).
Dentro questa dimensione di razionalità conta ogni segnale simbolico. La vicenda di Juventus-Napoli, su questo piano è inaccettabile. Una squadra vince a a tavolino perché gli avversari hanno obbedito a un’autorità a tutela della salute pubblica; e poi i suoi giocatori violano l’isolamento fiduciario e se la cavano con una modesta ammenda. Un caso che proietta ben oltre lo sport un senso di inversioni, rovesciamenti e caos a minacciare la compattezza comunitaria.
E, infine, tornando al discorso principale, c’è sempre un cattivo retropensiero, che tutta questa insistenza sulla disciplina dei cittadini sia (anche) un modo per distrarre dai ritardi e le inefficienze dei tamponi e dei tracciamenti e dal modesto incremento dei posti letto in terapia intensiva. O dal fatto che quindici regioni nemmeno hanno ancora presentato i piani per utilizzare una quota degli 1,9 miliardi stanziati dal Decreto Rilancio.
Avevo appena finito questo articolo che il coprifuoco ha cominciato ad appropriarsi dello spazio mediatico. E’ una misura sensata? Dal mio punto di vista ha un problema: che mi è venuta in mente un’altra vecchia barzelletta. Più precisamente un giochino, un finto test che veniva fatto per prendere in giro qualcuno non tanto sveglio.
Rispondi alla seguente prova d’intelligenza, gli si diceva.
Da un’indagine statistica riguardante gli incidenti sui treni è emerso che i rischi di mortalità si moltiplicano per quelli che occupano la prima carrozza.
Secondo te sarebbe una buona soluzione quella di staccare la prima carrozza?
Chiara l’antifona, no? I teatri parigini (per fortuna) hanno già annunciato che anticiperanno gli spettacoli alle sei. I ragazzi a un certo punto capiranno che piuttosto che non vedersi sarà meglio cambiare abitudini orarie e sostituire il cocktail notturno con l’aperitivo. Le persone comprimeranno le loro attività in quella fascia di tempo che sarà diventata la prima carrozza oraria.
Comunque, sembra incredibile, ma alla barzelletta c’era qualcuno che rispondeva, sì, sarebbe una buona soluzione.
Dentro questa dimensione di razionalità conta ogni segnale simbolico. Si attende ancora l’esito del giudice sportivo sull’esito di Juventus-Napoli. Ma il solo fatto che ancora sia plausibile la vittoria a tavolino di una squadra perché gli avversari hanno obbedito a un’autorità a tutela della salute pubblica, e poi gli stessi giocatori della squadra che vincerebbe a tavolino abbiano violato in blocco l’isolamento fiduciario cavandosela con una modesta ammenda, proietta ben oltre lo sport un senso di inversioni, rovesciamenti e caos a minacciare la compattezza comunitaria.
E, infine, tornando al discorso principale, c’è sempre un cattivo retropensiero, che tutta questa insistenza sulla disciplina dei cittadini sia (anche) un modo per distrarre dai ritardi e le inefficienze dei tamponi e dei tracciamenti e dal modesto incremento dei posti letto in terapia intensiva. O dal fatto che quindici regioni nemmeno hanno ancora presentato i piani per utilizzare una quota degli 1,9 miliardi stanziati dal Decreto Rilancio.
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