Mi piacerebbe fare una domanda semplice e precisa a uno qualsiasi dei decisori che nel mondo stanno affrontando in modo più o meno uniforme (salvo un pugno di criminali negazionisti) la pandemia.
La domanda è: ma se tra cinque anni fossimo ancora nelle stesse condizioni, secondo te dovremo continuare a vivere secondo gli stessi limiti e restrizioni?
Non è una domanda peregrina. È volato un anno, e quando si sono cominciati a varare i primi lockdown il senso era che restare chiusi in casa per un mese o due non sarebbe stato poi così terribile se fosse servito a ricondurci alla vita normale. Non era solo un senso implicito. Era la ragionevolezza a cui ci invitavano i governi.
Non pareva tanto convincente, non a tutti. Sarebbe stato vero se tutti fossero rimasti chiusi in casa in tutto il mondo sino alla guarigione dell’ultimo contagiato, e sempre che il virus non si fosse riformato. Era evidente che diversamente sarebbe cominciata una lunga guerra di posizione, salvo contare sulla benevolenza del virus e sui vaccini (sino a quel momento mai trovati per un coronavirus).
E infatti a un anno di distanza siamo, nel mondo in generale e molto in Europa, più o meno nella stessa condizione. Il lockdown è distribuito, parziale, diluito, alternato, diversificato regionalmente. Ma sempre quello è.
Quando cominciano a salire i contagi si punta il dito sui cittadini, che non sono stati diligenti. Ma secondo i dati diffusi in Italia dal Ministero dell’Interno, fino al 31 dicembre 2020 sono stati effettuati 30 milioni di controlli trovando in difetto solo l’1,72% dei controllati. Sui negozi sono avvenuti 6 milioni e mezzo di controlli e i soggetti passibili di sanzioni sono stati lo 0.19%. Cifre di regolarità quasi robotica e per le quali diventa di cattivo gusto non esprimersi come la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, che ha appena ringraziato gli “esemplari cittadini” invece di borbottare che è tutta colpa delle loro condotte dissennate (e rimproverarli persino per quelle che sono state autorizzate dalla legge).
Qualcuno punta il dito allora contro il singolo governo. I dati però sono piuttosto uniformi, indifferenti allo scostarsi dei provvedimenti. Anzi, la Francia ha continuato ad accumulare numeri superiori ai nostri pur nel cuore di chiusure più tempestive e severe.
Polemiche stanno insorgendo sui vaccini. In Italia si sottolinea che ne abbiamo somministrati più di tutti, e che le critiche sono speciose visto che c’è una corretta proporzione con le quantità di arrivo. Ma quanti ne vorremmo fare? Tito Boeri ha mostrato che se seguissimo la stima di Arcuri (450.000 al giorno), anche ammettendo che il vaccino protegga per un anno (non è sicuro) e che l’immunità di gregge derivante dal sia del 75% (invece che del 95% o giù di lì) non solo avremmo vaccinato tutti solo dopo tre anni ma non avremmo mai (neppure trascorsi tre anni) un’immunità di gregge, perché ci sarà sempre più del 25% della popolazione che, considerando il richiamo annuale, non ha in atto una vaccinazione efficace. Questo senza mettere in conto i mutamenti del virus che incideranno in senso negativo in modo inversamente proporzionale alla velocità delle vaccinazioni. Non ce ne frega nulla della nostra posizione nella gara a chi vaccina prima. Il problema è che con questa previsione di vaccinazione saremo ogni giorno punto e a capo.
Punto e capo no, si potrebbe obiettare. Sarà sempre meglio che oggi. La risposta è: sì, ma a parità di condizioni. In una situazione di libera circolazione è probabile che, con numeri come quelli appena indicati, i contagi sarebbero perlomeno pari a quelli di una situazione senza la stessa quantità di immunizzati ma con misure tanto restrittive. E allora?
Il panico suscitato dalla pandemia ha compattato tutti contro i negazionisti, offrendo la sensazione che esista un pensiero unico per la gestione della pandemia dietro cui qualsiasi persona socialmente responsabile non possa far altro che allinearsi. Si dirà che è un pensiero unico che obbedisce alla scienza: ma la scienza, oltre ad avere nella circostanza tutt’altro che un pensiero unico, si limita a fornire i dati per risolvere un problema specifico. Non ha nulla da insegnare quando si tratta di equilibrare interessi diversi, alcuni dei quali non hanno da trarre alcun beneficio da esperimenti in laboratorio.
Si dirà che la salute viene prima di tutti gli altri interessi, e che il Covid ha falcidiato un milione e mezzo di vite, ed è vero che è una contabilità mostruosa, e che sarebbe stata quintupla se non si fossero attuate delle misure. Ma un discorso sulla salute si proietta lontano, comprende i morti che ci sono e che verranno per il ritardo nella prevenzione e nelle terapie, per la miseria di chi ha perso e perderà il lavoro; comprende i traumi psichici che conseguono alla dissoluzione delle relazioni sociali e del livello di istruzione. E soprattutto: prendere misure diverse, o almeno valutare se sia il caso di prenderle, non consiste per forza in una diserzione dalla lotta alla pandemia. Interrogarsi sulla validità nel tempo delle misure correnti è esattamente l’opposto del negazionismo. Non solo non si negano l’esistenza del virus e la drammaticità clinica del problema, ma si afferma la plausibile possibilità che permangano in futuro.
Dei tracciamenti si è appunto persa traccia; il modello dei tamponi di massa sperimentato a Bolzano, per selezionare gli isolamenti, non ha avuto seguito alcuno; i ragionamenti sulle differenziazioni per categorie e turnazioni nella vita sociale non sono stati presi in considerazione; al volontariato nella vaccinazione si sono subito frapposti assurdi ostacoli; non vengono effettuati test a titolo statistico per individuare quali sono effettivamente i luoghi dove accelera il contagio. E questi sono solo profili sanitari, direttamente o indirettamente. Quello, che come profilo sanitario diretto, è il più importante, l’assetto del sistema sanitario e la sua risistemazione, come minimo per riadattarlo a una condizione probabilmente lunga di emergenza, è rimasto quasi immutato.
Nel frattempo stanno diventando normali l’eclissi del parlamento, l’affondamento della scuola, la cancellazione della cultura, i criteri di bilancio e indebitamento che rendono insostenibile il recupero per le generazioni future, l’allentamento dei contatti familiari fuori dai comuni di residenza, lo strame della razionalità pratica compiuto da provvedimenti sempre più all’ingrosso. Il commercio viene sostenuto con dei “ristori” che (sorvolando sulle pecche burocratiche nel nostro paese) ogni giorno che passa perdono sempre più il contatto con la realtà. Gli indennizzi per quanto un’azienda avrebbe guadagnato se non ci fosse stato il Covid non somiglieranno in alcun modo al fatturato che veramente quelle aziende avranno domani in territori sfiancati da una lunga pandemia. In questo senso sono troppo poco, ma anche troppo.
Eppure, lungi dal rappresentare un momento di rottura, la pandemia ha rinforzato gli squilibri sociali esistenti. Diciannove degli uomini più ricchi della terra hanno incrementato in un anno il patrimonio, e certi in modo rilevante. Nell’ombra delle cronache vampirizzate dal Covid, i dittatori più spregiudicati consolidano il loro potere e il terrorismo islamico riorganizza le file. Ed è facile prevedere che quando, cessati o ridotti gli ammortizzatori sociali, emergerà in Europa (nonostante l’indiscutibile sforzo dell’Unione) davvero la crisi economica, i populisti trasformeranno la rabbia e il disordine sociale in prezioso consenso. Le persone lo accetteranno, come si stanno abituando ad accettare tutto, passivamente. Nulla c’è di mezzo tra lo sfogo individualistico a distanza come la didattica e la sfilata becera e negazionista. I ristoratori provano a forzare la mano, e alcuni (penso molto pochi) dichiarano di voler riaprire, ribellandosi ma applicando le misure di sicurezza: è umanamente comprensibile, ma non è la direzione giusta – oltre ad essere perdente, a parte naturalmente illegale – perché mai come ora ogni singola questione di categoria non ha significato se non sullo sfondo complessivo della società. Non c’è spazio per una “resistenza” che non sia trasversale, e non può trovare infine dignità una resistenza che non sia transitata per una profonda elaborazione culturale, senza la quale diventa niente più che scollamento e caos. E non deve essere la pura resistenza a questo o quell’altro governo ma la resistenza all’uniformità di pensiero.
È incredibile che la più grave crisi globale affrontata dall’umanità dopo la seconda guerra mondiale venga ridotta a un fascicolo clinico, fingendo che non siano del tutto politiche le scelte sulle istituzioni, le risorse, la libertà, la stessa gestione della salute; nascondendo che dietro quelle scelte si stanno di fatto già prendendo decisioni sul capitalismo, il bene pubblico, la democrazia, la globalizzazione, la tecnologia, gli spazi urbani, anche per il futuro. Giocando sulla necessità di compattezza che occorre per far fronte a un’emergenza pubblica, si stanno tagliando le gambe allo sviluppo e al confronto di idee che mai come adesso dovrebbe arricchire la discussione pubblica. Dopo essere rimasti con una sola ideologia, ci troviamo con una sola versione del pragmatismo.
Non a caso, ancora più dell’economia e del commercio, è stata sacrificata la cultura, decidendo che prima di ogni cosa debbano rimanere chiusi i teatri e musei (Madrid ha fatto diversamente, e non ci sono notizie di focolai accesi da questa deviazione). La degradazione della cultura a bene superfluo è l’anticamera della morte civica di una società. È un baratro disceso per metà, una resa, una fosca profezia.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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