“Siamo adulti e vaccinati!” si usava dire tempo fa per sottolineare di essere persona adulta e responsabile delle proprie scelte. Una volta.
Il vaccino è inutile. Il vaccino è pericoloso. Il vaccino (obbligatorio) è illiberale e incostituzionale. Tutto insieme sembra un po’ troppo, specie se gli argomenti vengono rigirati insieme come bussolotti. Più le affermazioni si sommano e confondono, più sembrano i paraventi di un unico: ho paura, a prescindere (in Italia circola anche: l’obbligo vaccinale è come le leggi fasciste, ma stranamente i più scatenati contestatori nelle piazze sono i militanti di partiti che dichiaratamente si ispirano al fascismo).
Il vaccino in così poco tempo è stato un miracolo. Forse, o forse solo un po’: ha utilizzato tutti gli avanzamenti degli studi sui coronavirus precedenti, che non si erano già concretizzati in un vaccino perché le malattie si sviluppavano in aree geografiche economicamente poco interessanti per le case di produzione (così le vittime dell’Ebola non hanno goduto della libertà di prendere un vaccino e salvarsi la vita). Il vaccino ha salvato milioni di vite, il vaccino riguardo ad alcune promesse è stato una delusione perché non definitivamente debellante: forse non era retoricamente conveniente ammettere che non si aveva idea della durata di copertura di fronte a un (prevedibile) fiorire di varianti, ma oggi non diffonde una sensazione di sicurezza scoprire che dopo cinque mesi viene sostanzialmente azzerata. Il vaccino è sperimentato, in termini di protocollo, ma la pandemia in un mondo globalizzato è una sperimentazione, e inevitabilmente rende in fase di sperimentazione anche la cura. E se il dibattito su vaccino o non vaccino non esiste come dibattito scientifico (come è normale che sia), sin da ora non si prospetta strategia clinica unanimemente condivisa tra gli scienziati l’accelerazione dei booster.
Un dato matematico, in tutto il mondo, è incontrovertibile: chi non ha ricevuto il vaccino ha come minimo quindici volte più probabilità di finire in un reparto di terapia intensiva. Questo significa, puramente e semplicemente che se non ci fosse stata una vaccinazione di massa, oggi saremmo di nuovo nelle condizioni di prima, anche peggiori, nonostante la ridottissima letalità di Omicron (tacendo ovviamente dei morti che avrebbe causato la circolazione delle varianti precedenti). Essere no-vax, dunque, è un lusso che ci si può permettere (parassitariamente) in un paese di vaccinati.
Dal punto di vista delle scelte di tecnica normativa, l’obbligo vaccinale in Italia è tutt’altro che impeccabile, purtroppo. Arriva troppo tardi, o al limite troppo presto. Viene imposto in un momento di letalità nettamente discendente a persone, molte delle quali paralizzate e rese suggestionabili e manipolabili dalla paura, che fino a ieri non hanno trovato la forza egoistica per vaccinarsi e ora dovrebbero farlo essenzialmente in nome della solidarietà comunitaria. Se si deve sopperire a questa lacuna psicologica con la forza della sanzione, non si fissa la multa in 100 euro, e se si vuole instillare il senso della regola collettiva non si introducono distinzioni di età. Rimane comunque la pressione dell’esclusione sociale (la vera sanzione), che la configura come una renitenza alla leva durante la guerra (la renitenza alla leva può essere anche dettata da una forma di coraggioso idealismo, che risulta impossibile rintracciare in una posizione no vax. Il renitente alla leva assume coraggiosamente le conseguenze della sua decisione, non pretende di essere libero di disertare).
L’obbligo vaccinale è una strada, obiettivamente non l’unica, tant’è che l’hanno sin qui adottata solo una manciata di paesi. In prospettiva, il nucleo fondamentale della questione rimane quello che ho appena indicato, collegare l’eventuale esercizio di una libertà con la parallela responsabilità, in modo che la scelta gravi il meno possibile sugli altri. Il filosofo Peter Singer, prendendo spunto da recenti decessi verificatisi negli Stati Uniti per mancanza di posti nelle terapie intensive, suggerisce che quando ci si approssimi all’esaurimento, per qualunque malattia vadano preferiti per l’assegnazione i vaccinati rispetto ai non vaccinati. Ad esempio.
Nei paesi africani la libertà di vaccinarsi non esiste in senso assoluto (fino a inizio gennaio era stato vaccinato completamente il 49,3% della popolazione mondiale, il 69,2% in Europa ma il 9,1% in Africa): invii ridotti, sottoutilizzazione delle dosi disponibili per la bassa qualità della distribuzione e della logistica, fallimento dell’iniziativa Covax. E però anche una fascia di resistenza superiore al resto del mondo: solo il 39% della popolazione si dichiara disposto a vaccinarsi (un no vax europeo insomma ha una posizione più prossima ai contadini del Burundi che ad Habermas). Come ha rilevato Federico Rampini sul Corriere, nonostante ciò, la temuta strage non è avvenuta: se in Italia la pandemia ha provocato 229 decessi ogni 100.000 abitanti, in Uganda sullo stesso quoziente sono morte sette persone e in Nigeria due. La spiegazione più plausibile, (lasciando sullo sfondo l’ipotesi, sin qui non provata, che la lunga esposizione alla malaria abbia sviluppato una parziale immunizzazione) è l’abnorme differenza di età media: 20 anni nell’Africa subsahariana rispetto ai 43 dell’Unione Europea. Rampini ne ricava (ma è una giustificazione a posteriori) che l’ineguale distribuzione mondiale del vaccino sia stata più razionale di quanto appariva, privilegiando le popolazioni più fragili e vulnerabili, per una volta quelle occidentali. Rimane il fatto che sarà inutile inseguire uno per uno i nostri no vax se le varianti continueranno a riprodursi (non necessariamente più deboli di quelle che le hanno precedute) dove il vaccino corre. Si possono già preconizzare, contro i mortali barconi degli untori, le manifestazioni in piazza da parte degli stessi che oggi cianciano della dignità umana e della libertà di non vaccinarsi contro quello che ormai sarebbe un raffreddore.
Senza bisogno di avvelenare i pozzi o ricorrere ai sotterfugi che i visionari dipingono, la casa farmaceutica Pfizer – grazie essenzialmente alla sua capacità di produzione – ha sin dall’inizio, persino con arrogante trasparenza, assunto una posizione dichiaratamente speculativa rispetto alla pandemia. Una recente inchiesta del Financial Times rivanga come all’inizio abbia provato a “sparare” cento dollari per dose, poi sia discesa a una cifra di oltre quindici dollari comunque molto più alta dei concorrenti e l’abbia infine fissata con l’aumento della produzione a quasi venti dollari, cioè una cifra superiore a quella precedente, come mai si verifica in un caso di incremento produttivo. Nel solo terzo trimestre del 2021 ha realizzato utili netti di 8 miliardi di dollari. È impossibile negare che si tratti di un profitto meritato, in termini di valore sociale, proporzionato agli utili dei produttori di beni voluttuari o anche tecnologici, ma nemmeno si può accantonare, ancor più se ci si proietta oltre il breve periodo, la questione morale: se cioè sia accettabile far sottostare alle pure leggi di mercato (e con posizioni di dominanza) la salvezza di milioni di vite e l’intero funzionamento dell’organizzazione sociale.
Nel ridisegnamento sanitario del linguaggio politico, non limitarsi ai vaccini significa soltanto lasciare in vigore le altre forme di protezione reciproca riconducibili al distanziamento sociale. Adesso, in coda alla disillusione che la soluzione del problema possa essere rapida e definitiva, per le società avanzate è venuto il momento di andare oltre la somministrazione del vaccino, non certo nel senso di stopparlo o ridimensionarlo (anche se è difficile pensare di poter procedere a lungo con inoculazioni sempre più ravvicinate) bensì di mettere mano a riforme strutturali, come il rafforzamento dei sistemi sanitari o la liberalizzazione dei brevetti dei vaccini.
Immagine in apertura: Amazzonia Erik Jennings Simoes
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