Quando e da chi dobbiamo esigere il silenzio. O almeno un volume differente.
Partiamo da un esempio pratico. Nella tranquilla isola greca in cui uso tornare sovente d’estate, soggiorno normalmente in un piccolo hotel che affaccia sul porto. Una delle ragioni che rendono gradevole la posizione è la contemplazione dal balconcino delle infinite sfumature di colore che si susseguono sulle case e il mare con l’approssimarsi del crepuscolo. Si tratta di un porto, ed è normale che il vociare del passeggio e degli attracchi le accompagni. Intorno alle 19 tuttavia, quest’anno un evento puntuale ridisegnava completamente l’equilibrio della scena. Da una barca ancorata, quella che aveva appena terminato le escursioni per le spiagge più lontane, partiva un suono house di bassi, monocorde, senza nessuna melodia intorno a cui accasarsi. Un suono in grado di saturare lo spazio per qualche centinaio di metri. La cosa sorprendente è che non si trattava di una strategia di marketing per catturare l’attenzione dei nuovi turisti, in vista delle gite per il giorno successivo. Era il mozzo di bordo (o una figura equivalente) che puliva la barca. Cioè per un suo personale intrattenimento, del quale avrebbe potuto godere anche infilandosi delle cuffie invece che sparare la cassa esterna in dotazione della nave, decideva che tutti quelli che si trovavano a tiro ascoltassero la sua musica (musica si fa per dire: e sì che, come sa chi segue il mio wrog, sono estremamente aperto ai generi). Alla fine, però, la cosa sorprendente non era neppure il suo atteggiamento, bensì quello degli altri isolani che- non certo per soggezione, si trattava di un innocuo ragazzotto del posto- lo trovavano normale, dato che a nessuno veniva in mente di andargli a dire, come minimo, di abbassare il volume (la mia albergatrice l’ho scoperta persino scuotere la testa a ritmo). E parlo persino dei vari ristoratori che avevano i tavolini di fronte e mandavano una musica soffusa, non udibile oltre il recinto dei loro tavoli, ma a questo punto neanche all’interno del recinto stesso perché sovrastata dalla sua che, senza avere una licenza al contrario di loro, diffondeva la propria in uno spazio pubblico. Un piccolo episodio che rammenta tuttavia un problema che affligge in modo crescente i luoghi, sia al chiuso che all’aperto, e che consiste in una sorta di violazione di domicilio acustico o in una pirateria dei suoni.
Non sto parlando soltanto dell’antico tema dei rumori provenienti dalla strada. E quando dico antico, non uso un aggettivo iperbolico: in una lettera a Lucilio, Seneca si lamenta proprio del “chiasso indiavolato” che proviene dal suo “abitare sopra uno stabilimento balneare”. E anche di quelli che giocano a palla, o del salsicciaio e del commerciante di trombette che urlano. Nel XX secolo, giustamente ribattezzato da Stefano Pivato, “il secolo del rumore” (che seppe anche raccogliere un certo consenso ideologico per il senso di dinamismo metropolitano coincidente con il progresso), Ortega Y Gasset si lamentava che la strada nella città “penetra nel nostro angolo privato e lo riempie di rumore pubblico” e costringe colui che lo abita ad aggirarsi “come un palombaro in un oceano di rumori collettivi”. Nel mio Storia e pratica del silenzio ho indicato la cantierizzazione e la carnevalizzazione quali tendenze moderne che contribuiscono in modo decisivo all’incremento dei decibel (per carnevalizzazione intendo la riduzione della strada urbana a spazio di ostentato intrattenimento, per lo più insofferente nel sottoporsi alle pause tradizionali dell’orario notturno o del giorno festivo).
Il “rumore”, tuttavia, è un fenomeno soggettivo: definiamo rumore un suono che ci è sgradito. I comuni hanno cominciato a disciplinare, a furor di popolo, i rintocchi notturni delle campane quando la pratica cattolica ha cominciato a calare. E i tedeschi, tuttora, ricorrono agli aggettivi “rilassato e sicuro” per definirne il suono, che invece nelle risposte a un’inchiesta i giapponesi evocano ripugnante, spaventoso e pericoloso. A livello di decibel una tromba è superiore al trapano elettrico o al tosaerba del vicino ma in termini di percezione l’intensità è invertita. Non è l’orecchio a comandare, è il cervello, che può bloccare l’accesso di alcuni suoni o trasformarli. Nemmeno è del tutto vero che la campagna sia un’oasi di silenzio, e le sue sonorità possono provocare insonnia a chi si addormenta tranquillamente mentre ancora il traffico circola sotto casa. Una testimonianza personale riguardo alla soggettività è che, sempre nel famoso affaccio sul porto, non mi arreca nessun disturbo il fragoroso scarico quotidiano delle merci dal cargo il quale, ovviamente, decontestualizzato dalla situazione mi spingerebbe al suicidio.
Non voglio quindi porre qui la questione del rumore in se stesso, retriva e velleitaria: una comunità è fatta di rumori perché è attraversata da persone. Esistono però signorie personale di uno spazio, nelle quali entro certi limiti debbo aspettarmi che, così come nessuno mi costringe a essere toccato o a guardare qualcosa che non voglio guardare dovunque io giri la vista, anche l’ascolto non subisca intromissioni prevaricanti. Diciamo un domicilio acustico, che spesso coincide con quello abitativo (pure se transitorio). Certo, alcuni casi concreti temperano questa signoria. Seneca non poteva attendersi il cinguettio degli uccelli sopra lo stabilimento balneare: poteva quindi prendere casa da un’altra parte, o traslocare se perso nella sua filosofia aveva trascurato l’aspetto pratico al momento della scelta. Poteva anche andarsene su un cocuzzolo (oggi, però, la scelta del cocuzzolo sarebbe estremamente rischiosa: il luogo appartato potrebbe, proprio per questo suo relativo isolamento, quello prescelto per autorizzare l’apertura di una discoteca…).
Signoria dello spazio significa che, salvo rimediabili scorie esterne, posso curare un mio spazio mediante il silenzio con cui lo proteggo ma anche con il suono che vi introduco io, come personale colonna sonora. Un altro esempio di vissuto: a Torino esiste un piccolo, grazioso ristorante curdo, che d’estate tiene i tavolini all’aperto. L’atmosfera dei piatti viene però guastata da un locale vicino che piazza una cassa sulla via e spara a palla una mediocre musica da happy hour mondano. Sorvoliamo sulla molestia al vicinato, che già non è poco: non si può immaginare niente di più assurdo per accompagnare un piatto tradizionale di hummus o kebab. È come se nel locale gli avessero messo, al posto di quei piccoli oggetti dell’artigianato tipico del suo paese, gli stemmi e le foto delle gare motociclistiche. Pure senza un’attività commerciale, comunque, tutti noi dobbiamo avere la possibilità di scegliere la nostra colonna sonora (la percezione emotiva delle nostre esperienze è influenzata profondamente dallo sfondo sonoro che le avvolge). E nessuno deve sentirsi investito del potere di imporla agli altri, oltre il suo dominio di spazio. Se la musica proveniente da un locale eccede il perimetro della sua clientela e si prolunga lontano, nella strada, si tratta di un’occupazione abusiva di suolo pubblico. Se quelli che diffondono in un’intera piazza il loro suono, grazie a dei vistosi e poderosi altoparlanti, lo fanno in forza di un’autorizzazione va chiesto conto agli amministratori pubblici. Se, come credo, l’estensione del suono non rientra nell’autorizzazione è semplice. L’amministrazione deve mandare i vigili a multare, e la seconda volta si chiude il locale per dieci giorni.
Il fatto che il noto “reportage” dal treno di Alain Elkann (del quale avevo fornito una versione alternativa) fosse spocchioso, classista, ridicolo, egocentrico, anti-comunitario e generazionalmente sprezzante non rende men vero che certi viaggi ferroviari siano appesantiti da situazioni spiacevolmente chiassose, i cui principali protagonisti peraltro sono spesso pseudo-uomini d’affari che si attaccano al telefono e, trattando il vagone come un ufficio open space, ci mettono a parte delle loro questioni commerciali. Sull’inopportunità acustica della condotta si è raggiunto a un certo punto una forma di consenso sociale cosicché un annuncio invita a tenere bassa la suoneria e conversare nei corridoi. Nel frattempo, però, sta prendendo piega un comportamento ancora più incivile, che consiste nel sintonizzarsi su un film o un servizio musicale di streaming e lasciarlo correre, senza servirsi delle cuffie, come se ci si trovasse davanti al televisore di casa. Mi è capitato più di una volta di alzarmi chiedendo di spegnere o abbassare, frenando (anche perché la voce non è più quella di un tempo) l’impulso più rissaiolo di spingermi fino alle orecchie del soggetto e intonare una romanza o un pezzo d’opera a fini didattico-dimostrativi. Telefonare ad alta voce in ambienti chiusi è una cafonata ma segna una specie di “trance” nella quale ci si perde nell’io sino al punto da smettere di percepire la presenza di altri. Il broadcasting privato è un salto: è un vero atto di pirateria, un’appropriazione dello spazio, come se ci si sedesse sulle ginocchia dei vicini. È sin dal principio la perduta cognizione dell’essere-in- mezzo-agli-altri. Ma non è che chi nella notte libera nel cortile condominiale un condizionatore con unità esterna e di vecchia generazione (quelli che riproducono in sostanza la presenza di un trattore) faccia una cosa tanto diversa.
I test sperimentali, se ce ne fosse bisogno, dimostrano quanto negli animali e nell’uomo si alzi il livello di aggressività per effetto della frustrazione di subire suoni indesiderati, quelli che il cervello soggettivamente rubrica come “rumori”. Non sarò un caso se certe liti tra abitanti di un palazzo finiscono in tribunale o a pistolettate. Quel che di nuovo accade oggi è che il potere di diffondere emissioni sonore è alla portata di chiunque e le regole normali di convivenza non sono ancora riuscite a riorganizzarsi. Il fenomeno indicato come la piaga per eccellenza, la movida nei quartieri urbani, è spesso la più difficile da contenere, perché la maggior parte delle volte è il risultato di un semplice accumulo di voci. I ragazzi che scuotono il vicinato con le grida sono una piccola minoranza: ma ciascuno degli altri mutua il proprio status temporaneo dall’esistenza di quel chiasso per sovrapposizione, e del piacere di contribuire a crearlo.
Quali rimedi alla pirateria sonora? Urge una piccola rivoluzione culturale. Dovremmo smettere di considerare la qualità vitale degli ambienti cittadini inscindibile dalla spessa mole delle sonorità. In primo luogo, quindi, le amministrazioni dovrebbero essere più rigide nell’imporre il rispetto di vincoli stringenti sugli orari e su alcune giornate di tregua nonché vietare quelle che ho sopra definito occupazioni abusive acustiche. In secondo luogo, si dovrebbero creare aree protette noise-free, evitando che siano solo un privilegio acquistabile dai ricchi. Infine, dovremmo essere tutti pronti e combattivi nel reagire in diretta a forme sonore prevaricanti e invasive realizzate da singoli individui e propugnare campagne di boicottaggio quando a metterle in atto sono attività commerciali. Not in my hear. Guardate però che non è in gioco solo una tutela privatistica. Queste sono le basi dello stare insieme, e se si sgretolano se ne vedranno gli effetti anche in contesti che consideriamo più propriamente politici. Il contratto sociale alla Hobbes andrebbe rispiegato così: un tempo gli uomini vivevano affiancati e ognuno faceva tutto il casino che voleva. Finalmente uno, nel miracoloso attimo in cui la sua voca era percepibile, riuscì a dire: ragazzi, ma mica ci conviene. E si rivolsero al Leviatano, o anche no.
Fra i caratteri distintivi dell’umanità vi è la tendenza a evitare la ripetizione, privilegiando l’innovazione creativa e ciò che è differente. A uno sguardo più attento, però, fenomeni e comportamenti ricorsivi risultano prepotentemente insediati nei fondamenti delle nostre vite, e non solo perché rimaniamo incatenati ai vincoli della natura. Come le stagioni e le strutture organiche nell’evoluzione, si ripetono anche i cicli storici e quelli economici, i miti e i riti, le rime in poesia, i meme su Internet e le calunnie in politica. Su concetti e comportamenti reiterati si basano l’apprendimento e la persuasione, ma anche la coazione a ripetere e altre manifestazioni disfunzionali. Con brillante sagacia, Remo Bassetti affronta un concetto finora trascurato, scandagliandolo nei vari campi del sapere, fra antropologia, letteratura e cinema, per dipingere un affresco curioso di grande ispirazione. Da Kierkegaard almachine learning, dai barattoli di Warhol ai serial killer, dai déjà vu fino alla routine, questo libro offre un’analisi profonda della variegata fenomenologia della ripetizione nel mondo moderno, sia nelle forme minacciose e patologiche sia in quelle che invece assicurano conforto, godimento e, persino, libertà.
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