Dai tribuni della plebe a Mark Rutte, ma non si tratta della stessa cosa.
Il potere di veto conosce tre forme solo apparentemente simili, ma in realtà completamente distinte. Nella prima rientrano tutti i casi in cui in cui un potere interferisce negativamente sulla facoltà di decisione di un altro potere. I casi attuali più noti sono quelli dei capi di stato che possono opporsi alle leggi dell’assemblea parlamentare. In alcuni ordinamenti, come gli Stati Uniti, il Congresso o si adegua o trova una maggioranza più elevata; in altri, come l’Italia, l’India o la Finlandia, il veto presidenziale impone una rimeditazione ma non un ripensamento. Anche se dal punto di vista della prassi istituzionale rappresenta uno strappo, le Camere potrebbero sottoporre alla firma presidenziale un testo identico a quello precedente e al capo della Repubblica non rimarrebbe che firmare. I primi esempi storici del veto risalgono a quel laboratorio giuridico che fu l’antica Roma: i tribuni della plebe potevano porre il veto (ius intercessionis) alle leggi del Senato. Normalmente, dunque, un simile veto è una forma di organizzazione interna di un ordinamento, di un ente o di un’istituzione. Può tuttavia accadere che a porre il veto sia l’autorità di un ordinamento esterno: per secoli i principi degli stati cattolici più importanti potevano porre il veto alla candidatura per l’elezione papale al Conclave. L’ultimo papa che ne beneficiò (per la bocciatura del candidato precedentemente scelto), Pio X, si applicò poi per abolirlo, nel 1904.
C’è poi una seconda forma di veto che impropriamente rientra nella categoria, poiché si sostanzia nel fatto che tutti i membri di un certo organismo hanno veto sulle decisioni collettive, o almeno su parte di esse: in pratica altro non è che la sostituzione del principio di maggioranza con il principio dell’unanimità. Sempre a Roma, i due consoli potevano reciprocamente porre veto sulle proposte dell’altro. Oggi, il Consiglio dell’Unione Europea funziona all’unanimità per le decisioni più importanti. È la ragione, ad esempio, per cui risulta problematico uniformare le imposte e porre fine alla concorrenza fiscale interna, oppure ammettere nuovi membri o avviare la procedura di sanzione verso uno stato che viola i principi fondamentali dell’Unione Europea.
La terza forma di veto è invece l’attuazione del famoso paradosso orwelliano per il quale tutti sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri. Si tratta dunque di un privilegio concesso a qualcuno, che a differenza degli altri membri di un organismo può, con il suo solo parere negativo, impedire una deliberazione. Il caso più macroscopico e criticato è il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nel quale i cinque membri permanenti (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Regno Unito) possono troncare sul nascere una delibera su qualsiasi tema non procedurale. Nella Formula Uno, invece, questo super-potere è attribuito alla Ferrari che in virtù del proprio prestigio può opporsi a qualsiasi variazione del regolamento.
Il veto è la traduzione formale di un equilibrio tra maggioranza e minoranza – o tra potere principale e potere secondario, o tra poteri concorrenti – che occupa molti spazi della nostra vita. I sindacati, quando sono forti, non hanno potere di veto, ma se non si raggiunge l’intesa su una legge possono paralizzare i paesi. In una famiglia i bambini non vengono sempre conteggiati nella maggioranza, ma se cominciano a strillare sulla strada del museo i genitori finiranno per prendere atto del veto e si dirigeranno verso il parco. Non è poi tanto dissimile dai veti posti dentro le negoziazioni politiche.
Quando concerne l’interferenza di un potere su un altro, il veto discende talvolta da una competenza specializzata. La Sovrintendenza esprime parere vincolante su quanto concerne i beni artistici e culturali, anche indirettamente: capita quindi che sull’affissione di un cartellone pubblicitario autorizzato dal Comune che copre tutta una serie di edifici storici cada il veto della Sovrintendenza.
Il potere di veto può essere mascherato dentro una maggioranza “qualificata” (quando cioè è previsto che la decisione debba essere presa con una certa percentuale superiore al 51%) tutte le volte che qualcuno, da solo, possa raggiungere quel quantum di minoranza sufficiente a bloccare la deliberazione. Le principali decisioni sul Mes, nell’Unione Europea, devono essere prese con il voto favorevole dell’85%, contato non per teste ma per quote di contribuzione. Questo significa che se un paese da solo supera il 15%, ha di fatto un potere di veto. Ebbene i paesi sono tre, e uno di questi è l’Italia (insomma, per il momento i veti in campo di finanziamenti li poniamo noi).
Una particolare forma di veto è quella che in molti paesi del mondo concerne i matrimoni combinati, che sono diversi dai matrimoni forzati, nei quali i genitori decidono da soli, anche senza che gli sposi si siano incontrati prima della cerimonia. Nei matrimoni combinati c’è uno che seleziona e l’altro che pone il veto, se è contrario: se ci astraiamo dall’assurdità della costrizione, quale forma di condizionamento dovremmo considerare meno odioso: quello in cui sono i figli che cercano e i genitori che hanno diritto di veto, o il contrario? Sotto un certo profilo, è peggio che i genitori possano opporsi all’unione tra due ragazzi che si sono liberamente innamorati (per quanto nei paesi in cui vigono i matrimoni combinati la spontaneità degli innamoramenti sia spesso relativa), e però è anche vero che, lasciando ai giovani la selezione, viene loro riconosciuta una forma di autonomia; e chi pone troppi veti, in qualsiasi campo, finisce per apparire sempre dalla parte del torto, e quindi cerca di farne un uso più parsimonioso.
C’è un’altra importante distinzione che va fatta all’interno dei veti, e cioè chi sia il principale detentore dell’interesse sostanziale toccato dal veto. Anche qui le ipotesi sono tre, e formularle ci aiuta a capire quando il veto veramente non abbia senso.
La prima si verifica quando chi esercita il veto abbia un interesse neutrale: porre il veto non tutela in alcun modo lui e non danneggia chi subisce il veto. Se vi è un dissidio tra il Presidente della Repubblica e le Camere, o tra Sovrintendenza e il Sindaco, il prevalere dell’una o dell’altra volontà non torna a vantaggio delle parti ma (almeno teoricamente) della collettività.
La seconda invece contempla che il veto venga esercitato per un interesse proprio di chi lo oppone. In alcuni casi è una forma di tutela, come negli ordinamenti in cui certe decisioni del potere centrale non possono adottarsi se vi è un veto del potere locale. Quando però la delibera riguarda la condotta di qualcuno che ha il potere di veto, ed è presa dentro un organismo collettivo, sarebbe logico che l’interessato avesse obbligo di astensione. Il peggior difetto del veto esercitato dai membri permanenti dell’Onu non è solo che essi si oppongono a risoluzione che sfavoriscono paesi dentro la loro area di influenza (come quando le delibere sulla Siria di Assad sono state bloccate da Russia e Cina) ma che si oppongono a risoluzioni che riguardano i loro stessi comportamenti. Così, all’epoca, la Russia pose il veto alla deliberazione che riguardava la sua invasione dell’Afghanistan e più recentemente gli Stati Uniti hanno posto il veto sulla deliberazione che riguardava il loro riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello stato israeliano. Su questo l’Unione Europea è un po’ più avanzata, e quindi l’Ungheria non può porre il veto (cioè non viene conteggiata nell’unanimità della decisione) sulla procedura di sanzione a suo carico. Però basta che un altro paese, nello specifico la Polonia, si incammini sullo stesso sentiero illiberale, e le due nazioni si possono garantire ponendo l’una il veto a vantaggio dell’altra (sarebbe quindi logico estendere l’irrilevanza del voto/veto per conflitto d’interessi a carico di entrambi i paesi quando vengano nello stesso momento avviate le procedure di sanzione).
La terza si ha quando l’interesse che può essere paralizzato dal veto è prevalentemente della parte che lo subisce. Questo sarebbe stato il caso dell’Italia per gli aiuti europei, se fosse passata la linea del premier olandese Mark Rutte. Ma decidere di tirare fuori i soldi e quanti è una cosa; e che la coerenza del loro impiego con gli scopi del finanziamento sia monitorata dal Consiglio Europeo è sacrosanto. Però, che un singolo paese possa privare il paese finanziato della facoltà di decidere che una spesa o un investimento sul suo territorio sia preferibile a un’altra sarebbe veramente ridicolo.
In conclusione, c’è veto e veto, e non ha senso bocciarlo in toto come istituto superato dai tempi. Nelle sue migliori applicazioni costringe maggioranza e minoranza a trovare un’intesa, evitando che la prima schiacci la seconda, oppure coinvolge più organi istituzionali in una decisione di grande rilevanza. Anzi, ci vorrebbe qualche veto in più: diversi anni fa in Francia i giornalisti persero la battaglia per ottenere il diritto di veto alla scelta del nuovo direttore, e possiamo oggi ben renderci conto di quale forma di tutela un simile controllo sarebbe per i lettori. Quando poi il veto si esprime al suo peggio, come per l’Onu, dobbiamo pur sempre ricordarci che senza quell’ombrello i grandi stati semplicemente rifiuterebbero di far parte dell’organizzazione: che, con tutti i suoi numerosi limiti, è pur sempre una camera di incontro e di compensazione non irrilevante nel temperamento dei conflitti.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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