Racconto di Natale
“Proprio a Natale”.
La frase più idiota degli anni dopo Cristo.
Era morta mia mamma, non è che in macelleria avevano finito il cappone o a casa si era rotta la caldaia.
Non lo dici “proprio a Natale”, come tornasse più lieve se fosse morta a San Giuseppe, mentre mangiava le zeppole o un qualsiasi martedì piovoso di febbraio o il tredici agosto di quell’anno in cui il caldo torrido si portò via torme di anziani che invece di limitarsi a sudare morivano.
Io non è che avevo tanto da scambiare con la gente al funerale, certi non li vedevo da anni, quelli del quartiere buongiorno e buonasera e da quel momento condoglianze e grazie. E però, nessuno ometteva di aggiungere: “proprio a Natale”, qualcuno con voce stentorea come una parola d’ordine, certi con lo sguardo sfuggente salmodiandolo a sé stessi, altri guardandomi negli occhi, come per sfida. E ogni volta mi si strozzava la voce prima di rispondere malamente, mi scusi ma secondo lei che cosa me ne può fregare, le pare questo il problema? Persino il prete nella sua omelia era caduto in una simile banalità.
Ma mia sorella! “Proprio a Natale” recitò abbracciandomi.
Direte che per lei aveva un senso, tre figli di tredici/tredici/tredici anni a cui ancora frizzavano le unghie per lo scarto dei regali e le sarà toccato spiegare – con cautela, sempre nella stizzosa età adolescenziale sono – che però un pensiero alla nonna volata in cielo prima bisogna farlo. Tre figli cavati fuori trigemellarmente con il forcipe della fecondazione artificiale quando ormai la biologia del suo corpo sembrava avere emesso verdetto negativo; e perciò sin dal giorno dell’annunciazione lei professò un sentimento incommensurabile e mai provato da alcuno sulla terra, come se i figli degli altri fossero con i genitori amabili vicini di ombrellone o commilitoni, e quelli come me che figli da amare non ne hanno dei tapini, e che della mamma si occupassero loro che figli a cui badare non ne hanno. Con la scusa che il più piccolo – così mia sorella chiamava Ezio che al parto aveva messo il cranietto fuori per ultimo – con la scusa che il piccolo Ezio aveva la febbre si era scansata di venire a fare la vigilia, così eravamo soli io e la mamma. La mamma sul divano, attraversata sul viso dal riflesso iridescente delle lucine dell’albero, mi osservava benevola mentre andavo avanti e indietro dalla cucina a spignattare per noi una cena frugale sì eppure col suo tocco di festosità, era pur sempre la vigilia e la mamma ci teneva anche se faceva un po’ di confusione, Quando parla Mattarella? Non parla oggi mamma, il discorso lo fa l’ultimo dell’anno, la trovai una bella cosa, non è che tutti a 92 anni si ricordano il nome di Mattarella, forse nemmeno Mattarella a 92 anni si ricorderà il nome di Mattarella. La mamma l’aveva scandito perfettamente il nome, è la dote che aveva conservato meglio, se doveva scrivere – a parte il tremito della mano – il guaio è che andava lenta, e alla terza lettera aveva ormai dimenticato le prime due e quindi non sapeva quale dovesse essere la quarta, ma scandire però! scandiva le parole come l’insegnante in una scuola di dizione, non sempre le capiva ma la situazione non era così peggio di quelli che sanno ciò che dicono ma si mangiano tutte le vocali e quindi non li capisce chi sta ascoltando. Quando ebbi finito di apparecchiare e deposto sulla tavola il salame di cinghiale e il Puzzone di Moena, tanto gli esami del colesterolo erano eccellenti e lei impazziva da sempre per gli insaccati e i formaggi di malga, mi voltai verso la poltrona e pensai accidenti altro che tirare fino alla mezzanotte la mamma già è crollata, capitava a quell’ora, però poi si riprendeva, bastava chiamarla dolcemente toccandole il braccio. Mamma. Mamma. Mamma. A volte accadeva che si dovesse insistere, l’importante era non cambiare il tono di voce, emettere un suono soffuso appena più denso dell’alito puro e un po’ meno denso della brina, altrimenti poteva svegliarsi di soprassalto col batticuore. Insistere fiduciosamente. Mamma. Mamma. Mamma. Mamma.
Il dottore che viveva nell’appartamento a fianco le sentì il polso, giusto per forma. Guardò con pena me, l’albero di Natale, il salame di cinghiale, il Puzzone di Moena, il panettone, e lo schermo acceso dove Mattarella era comparso veramente, però non aveva fatto nessun discorso, solo due parole cui non avevo prestato attenzione anche perché il presidente sembrava guardasse proprio nella direzione di mamma, il volto costernato, forse gli spiaceva che la mamma non avrebbe mai sentito il discorso che stava certo già preparando.
Telefonai a mia sorella, sì, pianse, ma subito le scappò che proprio a Natale, e poi lo ripeté davanti a mamma, e poi in chiesa. Allora decisi che i nostri rapporti erano chiusi, con lei e con i miei nipoti, Ezio Ezio Ezio, li aveva chiamati tutti allo stesso modo perché sin dall’inizio intendeva essere egualitaria. Egualitaria, così disse dopo averli chiamati Ezio Ezio Ezio, e la mamma che pure cercava sempre di non contrastarsi con lei non poté trattenersi:
“Gioia di mamma, non mi sembra una grande idea che cosa ne pensa tuo marito?”
Fu un peccato che mio padre non disse niente al riguardo, mio padre non disse niente perché l’infarto ce lo aveva già tolto da cinque anni, ed Ezio evidentemente pure non disse nulla, intendo Ezio il padre dei tre figli, il marito di mia sorella che secondo mia mamma doveva pensarne qualcosa e che ora aveva tra figli che si chiamavano Ezio come lui.
Avrei potuto averli anch’io, i figli, ho convissuto per tre anni e con Emilia facevamo progetti. Eravamo bravissimi a fare progetti, forse anche troppi, eravamo grandi progettisti, quello che mancava nel gruppo che componevamo noi due era la manovalanza, l’esecutore. Furono tre anni bellissimi, vissuti avvolti nei progetti, e uno di questi era mettere su una famiglia numerosa, ma devi concepirli fuori dai canoni dell’immacolata concezione e io ed Emilia a un certo punto diventammo come fratelli, come quando due non sono sicuri che quello di loro appena passatogli davanti fosse nudo o indossasse una giacca scamosciata. E così sorella Emilia a un certo punto prese coraggio e decise di cercarsi un altro progettista, varcò per l’ultima volta la soglia di casa, ci credete? Era proprio Natale.
Tornai a vivere da mia madre, non che me ne fossi disinteressato durante la convivenza con Emilia, anzi, ma tornare sotto lo stesso tetto è una cosa diversa. Emotivamente è dura se tua madre sta declinando e però rassicurante, perché la puoi tenere meglio sotto controllo come fosse lei la figlia; e tuttavia, lucida o meno che sia, lei continuamente riprende le redini della sua maternità, con una cura inattesa, un gesto minuto, una carezza, uno sguardo che somiglia al cappotto che ti infilava quando stavi per andare a scuola. Non c’era giorno in cui omettesse di segnalarmi che ero il suo preferito.
“Tua sorella, tua sorella, è sempre stata così…” commentava scuotendo la testa, senza astio che mia madre astio non lo ha provato nemmeno per i nemici, piuttosto con malinconica rassegnazione. La frase veniva fuori nei momenti più impensati, con il crepuscolo o la grandine, senza che mia sorella fosse argomento di conversazione in quel momento e senza che mai seguisse una spiegazione o il riferimento a un fatto concreto. Nel tempo era cambiato soltanto che scuoteva la testa più lentamente e i capelli erano a spazzola. A me non interessava altro se non raccogliere quella confidenza – mia madre non si è mai lamentata dei suoi figli davanti agli altri – e del resto, anche se non sapevo a proposito di cosa, era vero che mia sorella era sempre stata così.
Dopo la fine del rapporto con Emilia vissi otto anni con mamma. Fino a quel Natale di cinque anni fa.
In quello seguente volli fare una scorpacciata di gente che proprio a Natale. Mesi prima entrai nella croce verde e diedi poi la mia disponibilità per la vigilia, il 25, e pure Santo Stefano, che tanto la gente li mette tutti insieme, pure se crepi a Santo Stefano non è che dicono vabbè almeno si è fatto il Natale, no no, per regolarità dovevi aspettare qualche altra ora, il tempo dell’ultima gozzoviglia, della tombolata o del cinema al pomeriggio, diversamente fai parte della schiera che proprio a Natale.
Fu un anno che proprio a Natale imperversò, o almeno così mi parve, non avevo esperienza specifica. Con l’ambulanza sfrecciavamo da una parte all’altra della città, e io pensavo questa è una pestilenza, altro che, la questione si dovrebbe porre al contrario, e a te a Natale non è accaduto niente, caspita che fortuna, speriamo bene anche per il prossimo. Frugavo nelle pupille vacue degli infartuati, nelle pieghe delle labbra ridisegnate dal dolore e dall’incredulità, nella rigida immobilità di chi aveva già compiuto il transito, nell’ansiosa richiesta di pietà indirizzata a Dio, al cosmo, a noi che eravamo a portata di barella. Non so perché mi tuffai in quell’esperienza, se per rivalsa o voyeurismo o per essere utile proprio a Natale, non lo so perché non mi è mai piaciuto trovare delle ragioni. Non mi è mai piaciuto che mi chiedessero conto delle ragioni, e così non ne ho mai chiesto io agli altri. Neppure a mia sorella ho chiesto conto. Non mi è piaciuto come si è comportata, le ho detto di non cercarmi più né lei né Ezio, un Ezio qualsiasi, punto. Punto.
Per un tot di giorni, dopo la crociera natalizia sull’ambulanza, rimasi rintanato in casa e decisi che una volta era stata sufficiente. L’anno dopo optai per una diversa forma di volontariato. Mi ero ricordato del film Patch Adams, scoprii l’esistenza di associazioni di persone che vanno a fare i clown negli ospedali pediatrici a scopo di alleviamento dell’ansia e terapia, e che a Natale chiedono rinforzi, un po’ perché alcuni clown sono più vincolati agli impegni familiari, un po’ perché, è chiaro no? proprio a Natale. E siccome si trattava soprattutto di entrare nei reparti oncologici o analogamente estremi, proprio a Natale mi fece la solita rabbia, perché quei piccoli degenti sono il vero bubbone del creato; e però in quell’occasione mi parve giustificato, lo vidi dalla prospettiva dei bambini e assunse un colore diverso, e anzi mi parve assurdo che Natale non venisse festeggiato prestandoci tutti, dico tutti i cittadini del mondo, ad animare quelle loro giornate, noi tutti pagliacci, e i bambini le uniche persone serie, che però tra la vigilia e il giorno di Natale ridono più del solito e dicono sì, è proprio Natale.
Io pensavo di non essere tagliato per fare il pagliaccio, ma mi hanno spiegato che non c’è bisogno che i pagliacci sprizzino allegria, anzi è meglio se sono cipigliosi, come il comico degli anni venti Buster Keaton, me lo ha confermato anche Anna che lo fa di mestiere il clown negli ospedali. Devi fare solo finta di essere il mio assistente, ha detto Anna. Io non penso di essere tagliato neppure come assistente, e ancor meno di essere tagliato a fare finta. Ma tutto è filato liscio, perché Anna volteggiava, rotolava, s’ingobbiva, s’ingoffiva, si slabbrava, s’inciampava, s’imbambiniva. Anna poi sostenne che avevo tirato fuori un paio di trovate niente male, eppure a me pareva di essere rimasto immobile. Consegnammo i regali insieme a un babbo natale e ai loro genitori. Poi venne l’ora di spegnere le luci e di uscire, Anna però mi fece un segno e ci infilammo in uno stanzino, preferiva sempre controllare che si fossero addormentati prima di andare via, spiegò. E quando il reparto rimase silente, mi prese per mano e girammo in punta di piedi vicino ai letti, in punta con le scarpe a punta che portano i pagliacci. Uno dei bambini nel letto saltò di scatto a singhiozzare, di certo un brutto sogno, e Anna si inginocchiò di lato, sussurrava con dolcezza, sussurrava ma riuscii a sentire.
“Tu non lo sai, non si fa mai un solo sogno per volta, sono sempre due, affiancati, che escono dalla tua testa come due fumetti. Uno è il sogno che vedi, nell’altro c’è un maghino, cioè un mago piccolo di statura, abbastanza piccolo per poter stare dentro un sogno piccolo come un fumetto, un maghino che se ne sta tutto solo lì per vigilare sul sogno di fianco. Quando ne capita uno brutto subito gli urla “Via!” e soffia addosso al sogno brutto per scacciarlo. Fffuuuf. Proprio così” aggiunse ventilando nel padiglione auricolare del bimbo. “Per questo il sogno brutto è andato via e non tornerà mai più. Dormi ora, che il maghino ti protegge. Fffuuuf”. E quello in effetti crollò, sereno. Ero incantato.
Anna arrivava a uno scarso metro e cinquanta, sarebbe stata perfetta come maghino.
“Ma te la sei inventata tu, questa storia del maghino dei sogni?”.
Cioè, intendevo se l’avevo copiata da qualcuno. Lei mi fissò serissima, di una serietà diversa che quando faceva la clown.
“Certo che no, è vera!”
Quel che è sicuro è che da quel giorno, finalmente, presi a trascorrere nottate tranquille. Quando mi svegliavo agitato pensavo che il maghino mi aveva tirato in salvo, e prima che il nuovo sogno riprendesse ne scorgevo la figura in dissolvenza e presa di tre quarti, come se in effetti facesse parte di un sogno laterale, e poi piombavo nel sogno nuovo, quieto come un quadro tahitiano di Gauguin.
“Ha un nome il maghino?”. Anna, con la quale ci eravamo scambiati i numeri di cellulare rispose al mio messaggio:
“Non penso”.
Non avevo intenzione di ripetere la clowneria ospedaliera – l’avevo trovata un’attività nobile, troppo più nobile di me, e il ricordo non mi confortava, mi stringeva il cuore – ma di rivedere Anna sì.
Arrivò all’appuntamento vestita con uno dei suoi costumi.
“Vieni dal lavoro?”
“No, oggi sono di riposo”
Non era uno scherzo, fuori dalle stanze ospedaliere non ho mai sentito nessuno prendere tutto così seriamente.
La larghezza dell’abito pagliaccesco mi impediva di inquadrare le sue forme, però non c’era un dettaglio del viso di cui il trucco grottesco riuscisse a intaccare la perfezione. Si rifiutò di portare la conversazione su argomenti personali e non era interessata ai miei, che del resto di rado sono interessato ai miei o a quelli degli altri.
“Pensi che un giorno potrò vederti senza costume?”
“No, penso di poterlo escludere”.
Mollai subito la presa, non mi piace innamorarmi a vuoto. Capitava che ci scambiassimo brevi messaggi strampalati e qualche volta che erano in carenza di organico andavo a darle una mano, mai a Natale però.
Decisi che la cura per “proprio a Natale” sarebbe stata la costruzione di una situazione emozionalmente asettica. La chiave di volta, per questi tre anni, è stato l’incontro con mister Coppino.
Mi era ripreso il gusto di guardare il calcio, e di farlo in un ambiente circondato di persone che fanno casino: io personalmente non muovo un muscolo durante le partite, ma mi piace che gli altri si contorcano, specie se sono progressivamente annebbiati dalla birra. È l’unico retaggio ancestrale che ho conservato dei culti bacchici. Così ho scelto un pub e ho cominciato a frequentarlo per cenare quando ci sono le partite della sera quindi in certe stagioni tutte le sere. Lì ho conosciuto mister Coppino.
È lui che si è presentato in questo modo. Io evito sempre di dire come mi chiamo e di raccontare i fatti miei, e così diffido di quelli che si presentano, perché si solleva una nube di imbarazzo di fronte alla mia silenziosa assenza di reciprocità. Mister Coppino, tuttavia, era solo interessato a offrire le sue generalità, e declinarle non era un modo per intendere bene adesso siamo più in confidenza scaviamo di più nelle vite rispettive, ma una ferma chiusura, guarda un legame di minima fiducia dobbiamo pur instaurarlo visto che siamo seduti a fianco, e questo è lo spazio che sono disposto a concedere, chiamami mister Coppino. Per maggiore trasparenza riguardo al punto, mister Coppino aggiunse che Coppino in realtà non è davvero il suo cognome, Coppino è la via dove abita e gli piace essere identificato così perché saremo almeno liberi di farci chiamare come cazzo ci pare. Anche se non sono curioso ho controllato su Google Maps e non esiste in città nessuna via Coppino, ma chiaramente non fa alcuna differenza, se hai deciso di farti chiamare come cazzo ti pare non è che facciamo ricorso al Tar perché ti fai chiamare con il nome di una via che non esiste. Mi sono domandato se un giorno Ezio, uno fra i vari Ezio, non si sarebbe posto allo stesso modo, per ribellarsi a quella tirannia onomastica. Non per forza mister Coppino, ma comunque qualcosa di diverso da Ezio.
Mister Coppino aveva una cinquantina d’anni, cardigan lisi, la barba di tre giorni anche ogni due giorni, una voglia sulla fronte come quella di Gorbaciov, capelli solo sulla nuca, un corpo tarchiato e senza spigoli, gli occhi di un grigio valpadano, un tono vocale di calma lacustre. In sua assenza ogni avventore gli attribuiva un mestiere diverso, ricavando certezza da pochi insignificanti indizi naviganti nei suoi discorsi o nei gesti: agente penitenziario, contabile, tabaccaio, sarto, impiegato postale, beccamorto, insegnante di applicazioni tecniche, pappone, rigattiere, capomastro, conducente di autobus, correttore di bozze di libri professionali, allenatore di calcio in qualche club giovanile. Se qualcuno provava a indagare con lui per venire a capo dell’enigma, mister Coppino si assentava per due o tre partite di fila. Quel che appariva evidente è che, come me, non c’era nessuno ad aspettarlo a casa e nemmeno a un angolo di strada. E come me rimaneva estraneo alle chiassate che seguivano i gol, eppure non perdeva una giocata, abilissimo a coordinare la visione dello schermo con quella del piatto dove mangiava; e molto competente quanto al pallone, come un mister, inteso come allenatore, ben disposto a trarne ispirazione per paragoni fra giocatori lontani nel tempo o metafore calzanti ad altri campi della vita.
Ridussi l’abitudine di sincronizzare la mia presenza al pub sulle partite, presi a frequentarlo in serate più tranquille, e mister Coppino non mancava mai. In quelle occasioni senza bolgia avevamo ciascuno il suo tavolino fisso, ed erano affiancati a pochissimi centimetri. Era come se fossimo seduti insieme ma il confine salvava l’apparenza della separazione, lasciandoci liberi di tacere per tutta la durata del pasto o conversare oziosamente, sempre a partire da quel convitato di pietra che era la partita di calcio. Una sera, in un accesso di confidenza, confessai il mio rodere interiore riguardo al Natale. “Natale!” rispose, aggiungendo che aveva dimenticato da tempo il senso di quella parola. Venne naturale da allora, e per tre anni, ritrovarsi al pub per tutte le festività senza dire che ci si ritrovava, sviluppare quella tacita amicizia povera di affetto, confidenze e aspettative, poggiata sull’interstizio tra l’ignorarsi e il cercarsi, sottile quanto la distanza fra i due tavoli.
I mondiali, quest’anno, mi hanno restituito il piacere di vedere le partite in mezzo alla folla. Io e mister Coppino, però, li seguimmo compassatamente, salvo un momento di commozione che lui ebbe al principio della finale Argentina-Francia, quando i telecronisti annunciarono che Tomasz Listkiewicz, l’assistente dell’arbitro, era il figlio di Michael Listkiewicz, che era stato guardalinee della finale Argentina-Germania nel 1986. Per la prima volta vidi i suoi occhi diventare lucidi: “Capisce?… padre e figlio che giocano in finale a distanza di oltre trent’anni, o che la arbitrano o allenano le nazionali, quello è nell’ordine delle cose…ma la continuità generazionale dei guardalinee, il passaggio del testimone nella secondarietà…è straordinario!”. Aveva gli occhi lucidi. Mi venne voglia di parlargli di mia madre. Avevo appena cominciato ma lui mi scrutò severo, come stessi violando un patto, e cessai.
Dopo neanche una settimana, nella sera della vigilia, mentre tagliavo l’hamburger, mister Coppino violò una delle nostre regole non scritte. Oltrepassò la superficie del suo tavolo con il braccio e me lo posò su una spalla.
“Devo chiederle una cosa” quasi sussurrò.
Pensai volesse tornare sull’argomento di mia madre e mi sporsi attento verso di lui.
“Dovrebbe accompagnarmi al pronto soccorso”.
Sarebbe potuto accadere quella sera o durante la finale, mentre inquadravano Messi o Tomasz Listkiewicz, o in una giornata qualunque. Non sarebbe cambiato nulla. La strategia di opposizione al proprio a Natale in questo senso mostrava di aver funzionato. Forse era la catarsi. Forse potevo, quella stessa sera di vigilia, riconciliarmi con mia sorella. O con i nipoti, almeno con Ezio. In effetti c’era uno di loro per il quale avevo sempre provato un po’ di affetto. Ma non ero in grado di riconoscerli dalla voce, e quindi di dire senza il rischio di sbagliare: Ciao Ezio, mi passi Ezio?
Ero da solo, ai piedi del lettino di mister Coppino. Lei è un parente?
“In un certo senso” mi era parsa una buona risposta. Pareva non si trattasse di infarto ma era il caso di tenerlo sotto osservazione. Lo avevano sedato, eppure continuava ad agitarsi e lamentarsi. Provai vanamente ad attirare l’attenzione di un paio di infermieri. I tracciati cardiografici sul monitor scorrevano molto discontinui.
Presi il telefono e mandai un messaggio.
Anna impiegò solo un quarto d’ora per arrivare dal reparto pediatrico. È lui? Domandò. Annuii.
Si inginocchiò a bordo del letto. “Via!” mormorò. E poi gli fece fffhhhh soavemente nell’orecchio. Il tracciato di mister Coppino si fece più regolare, come il respiro.
“Lascialo riposare adesso”. Mi prese per mano e, come la prima volta, mi condusse in uno stanzino di servizio, cieco e completamente buio. Conosceva a menadito tutti gli anfratti dell’ospedale.
“Mi sei mancato, sai?” mi colse di sorpresa.
Il silenzio era tale che il rumore della sua casacca di clown che scivola sul pavimento sembrò quello di un servizio di piatti che si frantuma al suolo. Il sapore della sua bocca sapeva di clowneria e io ero l’equilibrista sul filo della sua pelle.
Mi staccai un secondo. “Dimmi una cosa. Lo staresti facendo se non fossimo proprio a Natale?”.
La risposta nell’orecchio fu fffhhh, o forse era un fanc…o l’imitazione del vento che sibila tra i platani. E subito dopo, noi le foglie sospinte dall’autunno.
Fu quel che fu. L’effetto è che scacciò l’incubo, il lutto che mai avevo dismesso per mia madre, il rimpianto di Emilia. Era del tutto prematuro, e con fastidio di Anna anche un po’ distraente, ma in quello stanzino mi stava tornando la voglia di fare progetti.
Se riesce a cavarsela, il prossimo Natale, pensavo, lo passerò con mister Coppino.
Scrivi un commento